Ragazzi riprendetevi il futuro, il paradiso in terra esiste – intervista a Teresa De Sio
Teresa De Sio non ha dubbi: nel vedere l’onda anomala degli studenti riempire piazze e palazzi ha pensato che possa esistere «’o paraviso ‘n terra», sì proprio quel paradiso di cui parla nell’ultimo singolo appena uscito nella riedizione dell’album «Sacco e Fuoco» [Edel, album doppio, 16 euro], con registrazioni di live acustici per Radio Lifegate e Radio Popolare.
“Trovo straordinario questo movimento di ragazze e ragazzi – commenta De Sio – e pensare che quella canzone l’ho scritta almeno un anno fa con Raiz. Vedere questi ragazzi che cercano di riprendere in mano il loro futuro, perché di quello parlano, è stata una grande emozione”.
Il testo della De Sio dice: «bravi ragazzi senza paura/alzate la testa, tutti quanti, e riprendetevi il futuro/ ma noi vogliamo il paradiso in terra…», versi che sembrano prestarsi naturalmente a divenire colonna sonora di questo movimento che ha sprigionato “una energia molto forte – sostiene l’autrice partenopea – e quando è così lo spazio non te lo dà nessuno, lo spazio te lo devi prendere, questo è poco ma sicuro. Vederli mi ha fatto pensare che potessero essere il video della mia canzone, ma non oso aspirare a tanto!”. Il video del singolo, in uscita in questi giorni, è invece il primo video europeo girato a impatto zero con il sistema ecoluce, sistema a zero emissioni di anidride carbonica che utilizza l’energia prodotta tramite pannelli fotovoltaici che si avvalgono dell’irraggiamento solare per generare elettricità dell’impianto audio e luci. De Sio nella sua esperienza decennale ha spesso sperimentare linguaggi differenti e realizzato progetti complessi come l’ultimo Ridimm’a Sud, con la presenza di molti artisti [fra gli altri Mau Mau, Roy Paci, Raiz, Ginevra Di Marco, Apres la Classe]
Edoardo De Angelis dice che la musica popolare è uno strumento per la vita dell’uomo. Condividi questa espressione?
Non so cosa intenda esattamente De Angelis. Musica popolare può significare tante cose, la musica pop è popolare, la musica folk anche. Secondo me il folk è il rock del popolo e in quanto tale è certamente strumento di sopravvivenza e di affermazione di una identità.
Non c’è il rischio che l’affermazione di una identità si trasformi in chiusura identitaria?
Quest’ultima non è identità è stupidità forte, chi è forte veramente non ha paura perché è semplicemente consapevole di sè, non deve combattere un altro. Il problema è che da una ventina di anni la nostra identità profonda – che non è fatta solo di tradizione ma anche di etica, estetica, filosofia e di tutto ciò su cui un popola forgia se stesso – è bombardata attraverso i mass media da modelli assolutamente scadenti. Più il modello è scadente ed è debole, più hai paura e diventi violento, qualcuno diceva che la pistola comincia quando finisce l’ultima cosa da dire.
Quale può essere un antidoto musicale a questa paura?
Ogni volta che scrivo una canzone, e lo faccio come donna che si sente interprete, autrice e cantautrice, cerco di mantenere forte il filo con la tradizione. Se perdi questo, perdi il rapporto con la tua identità e allora inizi ad avere paura di chiunque è portatore di identità diverse perché non sei forte nella tua. Del resto, la contemporaneità non può che vivere della memoria e della tradizione, non ha altri argomenti su cui fiorire e su cui liberarsi. Faccio un esempio, sto andando a vedere la mostra di Picasso, che mi ha sempre affascinante per la sua capacità di unire le epoche pittoriche. Picasso ha non ha mai buttato via del tutto il figurative e su quello ha innestato la tecnica e il linguaggio che la modernità gli ha offerto con il cubismo, il surrealismo. Nella musica la tradizione popolare si equivale al figurativo in pittura. Picasso era Picasso, ed è riuscito a produrre un’arte che si nutre di più linguaggi, fatti di tradizione e innovazione e quindi destinati a rimanere nel tempo. Ora io non mi sto ovviamente paragonando a Picasso! Mi piacerebbe che sentendo la mia modesta opera qualcuno ascoltasse lo stesso tentantivo di mantenere il filo tra la tradizione e il moderno.
Quanto ha influito l’incontro con Musica Nova nella tua scelta professionale?
Moltissimo, prima di Musica Nova non pensavo che avrei mai fatto questo nella vita, studiavo danza classica e avevo cominciato a lavorare in teatro, mi pensavo ballerina o attrice. Ero sicura che quella sarebbe stata la mia strada. Il caso ha voluto che incontrassi a Torino, città che amo molto, Bennato che ha dovuto poi essere molto persuasivo, perché non avevo nessuna intenzione di intraprendere questa strada. Poi quando ho capito bene di che cosa si trattava e sono stata coinvolta anche nella ricerca sul campo, allora ho cambiato idea. Tanti i viaggi in Puglia al santuario di San Paolo di Galatina, che di recente ho contribuito a restaurare. Sono orgogliosa di aver potuto contribuire perché penso che quel luogo sia un importante centro di “culto laico”, mi sembrava sconcio che fosse abbandonato così.
È stato con quelle ricerche sul campo che ho iniziato a studiare la tammurriata, la pizzica e ho capito perché mi piaceva, sul finire di quegli anni Settanta, ascoltare la musica afroamericana, il blues e Joni Mitchell. Ho capito che tutta quella roba lì veniva dal corrispettivo nella musica popolare e folk americana e tutto era una rielaborazione di quei linguaggi. Tutti i grandi musicisti che hanno detto qualcosa che è rimasto hanno delle radici nella musica popolare del luogo da cui provengono.
Hai nominato San Paolo di Galatina. A proposito di questo e della musica popolare, non credi che attorno alle musiche popolari si sia creato un fenomeno di grande commercializzazione e pochi conoscano le vere storie che ci sono dietro?
Devo ammettere che sono poco interessata alla filologia nel mio rapporto con la musica popolare. Da un lato mi dispiace che molti ragazzi non sanno che cos’è il tarantismo, dall’altro quando mi capita di parlarne cerco di dire in pochissime parole quello che ho imparato io. Ossia che il rituale dell’andare in trance è l’escamotage che la cultura arcaica popolare ha inventato ed elaborato nel corso dei secoli per liberarsi dalla sofferenza e dall’infelicità. E da quel sentimendo di inadeguatezza che tutti noi conosciamo, perché la vita è così, nasciamo e veniamo buttati nel mondo. La cultura occidentale contemporanea ci illude che noi possiamo tenere a bada questo sentirsi inadeguati con la farmacologia – ricchissima di prozac, antidepressivi e terapie psiconalitiche più o meno complesse. Quando questo non c’era in Salento, come in luoghi deserti della Giamaica o di chissà dove, i piccoli gruppi etnici per sopravvivere all’infelicità si inventavano la loro tecnica, in questo caso la puntura di un ragno, vera o presunta che fosse. In più i ragni sono divinità psicopompe, mettono in contatto il mondo dei morti e quello dei vivi. Quando la taranta ti pizzica è lo spirito del morto che danza dentro di te e ti permette di liberarti, di allegerirti dal peso della quotidianità, dalle tensioni, dalle infelicità, dal senso di responsabilità che il tuo io sociale comporta. Questo è il motivo per cui si danza e la pizzica in particolare con la sua ripetività ritmica è essenziale, e ciò che è essenziale sul piano ritmico non ti può tradire, nè abbandonare. Tutto ciò è molto affascinante e sarebbe bello che tutti i ragazzi sapessero questo. Ma anche se non lo sanno a me va bene lo stesso, preferisco che ci siano diecimila ragazzi che ballano la nostra musica che non Britney Spears… Detto questo, ciò che è moda passerà, ciò che è sostanza resterà. Quindi non mi preoccupo più di tanto.
Con Giovanni Lindo Ferretti hai realizzato un bellissmo progetto, Craj, sulla vita di alcuni protagonisti della musica pugliese. Ferretti negli ultimi tempi ha preso posizioni politiche decisamente conservatrici, in particolare quelle riguardanti l’aborto. Alle luce di questo oggi saresti disposta a collaborare di nuovo con lui, pensi che la musica possa andare anche oltre le differenze ideologiche?
Questione spinosissima… Aldilà di Giovanni Lindo il motivo per cui oggi non potrei più fare Craj è perchè uno dei protagonisti Matteo Salvatore non c’è più. Sono felicissima di averlo fatto ed è stata l’esperienza forse più affascinante della mia vita. Per quanto riguarda Giovanni Lindo, rispetto profondamente la sua scelta sul piano spirituale e religioso. Conosco la sua storia e la sua straordinaria intelligenza, cultura, sensibilità e capacità di essere visionario nei confronti del mondo, perciò la rispetto ancora di più. Naturalmente non sono d’accordo su alcune delle scelte politiche, ma anche su questo c’è rispetto, l’unica cosa su cui non credo sia possibile alcuna mediazione è su ciò che riguarda le donne. Ma non mi sono stupita, Giovanni è un estremista.
In una delle canzoni dell’album “Due ore al giorno”, parli di tempo e di speranza. È possibile coltivare la speranza in questa epoca così accellerata, in cui tutti vanno di corsa?
No e bisogna spostare questo trand perché se si accorcia il filo della speranza si accorcia il filo della vita. La speranza significa avere dei desideri possibili da raggiungere, desiderare qualcosa di irrealizzabile è da sciocchi, non desiderare niente è da morti. Come diceva Borges, la speranza è l’unica arrività umana che non costa nulla.
Il tuo prossimo desiderio possibile?
Sto scrivendo il mio primo romanzo, ma non aggiungo altro…
pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it