Barbara Bonomi Romagnoli | Piove sul nostro amore – intervista a Silvia Ballestra
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Piove sul nostro amore – intervista a Silvia Ballestra

È rimasta sorpresa, proprio non se l’aspettava Silvia Ballestra, scrittrice e traduttrice quarantenne, che i suoi coetanei fossero così silenziosi, così chiusi quando si parla di donne, aborto, autodeterminazione. “I maschi li ho trovati sulla difensiva, confusi, mentre i 50enni, toccati dal femminismo e dalla politica, sono più chiari, più limpidi”.

Una constatazione che l’autrice ha fatto nel dare alle stampe il suo nuovo libro “Piove sul nostro amore. Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni” [Feltrinelli, pp. 174, euro 14] e dopo aver raccolto le prime impressioni tra amici. Come suggerisce il sottotitolo è un libro che parla di questioni vecchie come il mondo, leggi che si davano per scontate e nonostante questo si torna a parlare di 194 e sono sempre più pesanti gli attacchi all’autodeterminazione delle donne. “Sapevo che molti dottori giovani sono antiabortisti, che di per sé è un segnale inquietante, infatti non li ho intervistati volutamente perché mi interessava parlare con chi l’aborto lo fa. Ma non pensavo che la posizione di certi miei coetanei a sinistra fosse così ambigua. Mi è tornata in mente la Lonzi quando si chiedeva ‘per il piacere di chi ho abortito?’”.

Superato lo stupore, Silvia Ballestra non perde la sua verve nel raccontarmi come è nata questa nuova esperienza letteraria, che sembra seguire un filo rosso comune alle precedenti produzioni.

Marchigiana d’origine e milanese d’azioni, Ballestra ha iniziato molto giovane a scrivere, allieva di Pier Vittorio Tondelli, il suo primo libro “Compleanno dell’iguana” è stato tradotto in diverse lingue e il suo racconto “La guerra degli Antò” è diventato un film di Riccardo Milani.

Il nuovo libro comincia dall’8 marzo 2008, prima con l’incontro di Napolitano con una delegazione di donne e poi il racconto di piazza Farnese con il comizio della lista Ferrara e il delirio dell’ex cantante dei Csi, Giovanni Lindo Ferretti, che come scrive Ballestra nel suo intonare e stonare “un’ineffabile Santoooo” è diventanto “molto, molto punk”.

Poi seguiamo l’autrice nei Cav (Centri per la vita) dove pontificano personaggi del calibro di Mario Palmaro (docente di bioetica della Pontificia Università Regina Apostolorum) e ascoltiamo le sue conversazioni con Silvio Viale, Francesco Dambrosio, Anna Bravo. Un testo che intreccia riflessioni personali e racconti di vita, statistiche e fatti con l’intento di dire basta. Basta a parlare a nostro nome, a creare emergenze che non ci sono, soprattutto basta con questi “diktat su questioni che riguardano le vite delle persone”.

 

Torni a parlare di donne, dopo il tuo pamphlet “Contro le donne nei secoli dei secoli”. Perché stavolta hai scelto una forma che ricorda molto la narrazione del reportage giornalistico?

Dopo dieci, fra romanzi e raccolte di racconti, avevo voglia di confrontarmi con un altro tipo di scrittura e narrazione. Adesso c’è anche questa tendenza a chiedere agli scrittori ad uscire di casa e devo dire che lo trovo molto stimolante.

In più il tema che affronto mi appassiona molto. È una questione calda non solo per l’attualità del nostro paese, ma anche per la mia storia personale. Ci sono arrivata dopo una serie di passaggi nel mio lavoro e nella mia vita. Ad esempio, l’incontro con Joyce Lussu, per certi aspetti antesignana del femminismo che ho conosciuto. Oppure Nina la protagonista di uno dei miei romanzi, che racconta la storia di un parto, della maternità che prima ha pesato per millenni come un macigno e poi quando le donne hanno fatto irruzione sulla scena pubblica è diventata una questione da accantonare. Si è riflettuto poco, credo, sulla maternità dopo gli anni Settanta, lasciando il monopolio su certi discorsi ai cattolici. Ma i figli non li fanno solo loro.

In questo libro incontriamo il Movimento per la vita, i medici abortisti, alcune donne dei consultori. Non pensi manchi la voce del movimento femminista che proprio nell’ultimo anno è tornato a farsi sentire fortemente?

Sì, forse hai ragione, ma non è stata una scelta. La ricerca e il viaggio sono nati anche dalle occasioni, per caso una sera ho scoperto che ero a cena con il figlio di Francesco Dambrosio, il medico-simbolo della Mangiagalli di Milano a cui poi ho chiesto un incontro. Ho costruito il libro attorno a tre aspetti: quello dell’attacco alle donne con il movimento per la vita; quello medico, e quindi da lì son nate l’interviste ai medici abortisti come Viale; poi ci sono i racconti sugli aborti, perchè difficilmente le donne ne parlano. Ho trovato molto significativa la figura della infermiera all’Ospedale di Padova, che lavora a contatto con bambini “costretti a una vita di sofferenze”. E poi c’è anche l’intervista ad Anna Bravo.

Ma Anna Bravo non è l’unica voce del movimento femminista, è molto discussa la sua tesi che il feto sia vittima al pari della madre nell’aborto. Non pensi che sia sbagliato parlare di “vittima”?

Capisco che il linguaggio può apparire inadeguato perché la parola vittima evoca l’omicidio tanto caro ai prolife, ma la Bravo parla di vittima di violenza. E’ innegabile che l’aborto sia un atto violento. E che sia un problema etico. Di sicuro in questi trent’anni dalla 194 ci sono stati progressi tecnici che hanno cambiato la percezione dell’intera esperienza della maternità. Con questi cambiamenti bisogna confrontarsi e Anna Bravo ha posto questioni nuove, si è spostata dai discorsi di un tempo. Le nostre mamme non avevano ecografie e simili, né la possibilità di scegliere fino in fondo.

Appunto, quindi anziché dire vittima si dovrebbe parlare di donna libera che sceglie. Ad un certo punto scrivi che l’aborto è sempre una tragedia, alcune donne non sono convinte di questo.

Penso che sia difficile trovare una donna che possa negare la pesantezza dell’esperienza. Quando dico che l’aborto è sempre una tragedia penso al fatto che prima c’erano più figli e anche più aborti, quindi anche la percezione e i sentimenti attorno erano diversi anche più condivisi. Ora che si fanno meno figli e meno aborti ma si pensa di più, c’è più riflessione attorno alla possibile maternità e aborto. In questo senso ci si interroga sull’eventualità di un fallimento o sul perché accade: prima non c’erano gli anticoncezionali, ora sì. Da dove arriva allora lo scacco? Non controllo bene il mio corpo? Sono dei nuovi problemi che l’autodeterminazione, sacrosanta, porta con sé. È una conquista ma anche un rovello. La storia che racconto della ragazza diciottenne è una risposta a chi dice che è una leggerezza farlo. Non ci credo che ci sia donna che lo abbia fatto con leggerezza.

Un capitolo lo hai intitolato “La vita, non la conoscono” e polemizzi con chi sta lasciando che di vita ne parlino solo a destra…

Sì credo che si tratti di calcolo politico preciso ma sbagliato. Dire liberi tutti o questione di coscienza su certi temi è una ipocrisia e che poi certe questioni nel Pd siano appannaggio della sola Binetti è davvero ridicolo. Ma aggiungo anche che le emozioni, quello che si prova quando accade il fatto concreto, sono molto diverse dalla vacuità della discussione politica. E se si scende sul piano delle storie reali si scoprono tante cose. La 194 è una storia risaputa per chi vuole saperla, ma invece quello che accade a Seveso con la diossina è poco noto.

Personalmente mi ero persa quell’episodio e ho scoperto cose che non sapevo.

Ti sei iscritta ad un seminario del Movimento per la vita per capire di cosa si trattasse. Che idea ti sei fatta delle donne che lavorano lì?

Molte donne sono assolutamente in buona fede, con le donne straniere lavorano molto. Il problema è la componente ideologica molto forte e non è un caso che sono i maschi a teorizzare, che ricoprono ruoli di potere, lavorano di lobby. Sono molto più pericolosi loro delle volontarie.

Mi ha stupito la chiusura del tuo libro, questo lasciarci con una sorta di immagine sacra, dentro la Basilica del Santo a Padova dove ci sono i biglietti di ringraziamento delle mamme per i bimbi nati e quelli non nati, come se dovessimo tornare alla fede…

In realtà per me è una immagine che rimanda ai due estremi, inizio e fine della vita. Effettivamente non avevo pensato alla tua interpretazione. Per me è più il simbolo dell’accettazione umana e Dio c’entra poco, anzi si dovrebbe capire anche dalle storie che racconto che molti cattolici poi agiscono differentemente dai dettami delle gerarchie ecclesiastiche.

Nella tua città è stato ucciso un ragazzo, un po’ ovunque stanno aumentando gli episodi di intolleranza. Che sensazione hai tu di tutto questo?

Per quella che è la mia esperienza, a Milano accanto al borbottio parafascista che sento da anni, c’è una realtà diversa. Lo vedo nelle scuole dei bambini, dove tutto si stempera nella quotidianità e l’incontro tra culture avviene di fatto.

È sopravvivenza o vera accettazione dell’altro?

Credo che ci sia il riconoscimento dell’altro e del diverso anche se in superficie escono fuori discorsi rozzi. Ma del resto sono 20 anni che tv e politica alimentano l’odio e lo scontro di civiltà.

Cosa si deve fare per ricostruire una sinistra capace di trasformare questo stato di cose?

Dovrebbe ricominciare dalle lotte civili, dalle battaglie per i diritti e contro il razzismo, in maniera laica e vigorosa. Quello che mi ha impressionato di più parlando con Dambrosio è quando mi raccontava che negli anni ’80 certe battaglie son state vinte perché il fronte laico era vasto e compatto. Il sostegno non arrivava certo dal Pci, ma da socialisti, repubblicani, fino ai liberali. Da non crederci i liberali! Fa impressione pensare che ora il Pd abbia la Binetti e il Pdl la Boniver. 

 

 pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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