Barbara Bonomi Romagnoli | Nonviolenza. Femminile plurale Genova 2001. Una riflessione sulla nonviolenza a partire da sé
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Nonviolenza. Femminile plurale Genova 2001. Una riflessione sulla nonviolenza a partire da sé

A Genova 2001 è successo qualcosa che non avevo mai visto e ho riflettuto su qualcosa su cui non avevo mai pensato riguardo me stessa. Ho visto la violenza cieca e irrazionale farsi corpo, quella violenza di carne e sangue che fino a quel momento avevo letto solo nei libri o nelle cronache di guerra e ad un certo punto, in mezzo ad una carica, mi sono detta: “Se trovo una pietra la lancio, mi devo difendere” e “quel che succede succede”, devo aver pensato un secondo dopo.
Allora mi son detta che forse non ero davvero pacifista-pacifica-nonviolenta come avevo fino a quel momento creduto. Il dubbio mi ha preso.


Dopo averci pensato a lungo, la risposta è stata che anche se l’avessi trovata alla fine quella pietra non l’avrei lanciata, ma questo non avrebbe significato un annullarsi della rabbia e della violenza, e la voglia di sfogarla su qualcuno o qualcosa, che in quel preciso momento ho sentito montarmi dentro.
Probabilmente un’analista avrebbe una risposta migliore e più articolata, quello che viene da pensare a me è che la nonviolenza non mi arriverà mai dal cielo, ma la devo costruire giorno per giorno. Avendo come bussola quel motto imparato sui libri, almeno per quanto riguarda la mia generazione, ossia che bisogna partire da sé, dal personale e cercare così di trasformare il mondo che ci sta attorno. È una di quelle ovvietà che non è mai troppo ripetere, ho imparato che, come per la politica e il femminismo, queste azioni che sembrano “banali” sono una grossa fatica e non così semplici da attuare e realizzare. Come scrivono altre più esperte di me l’essere donna non è una garanzia. Alla favola che le bimbe sono brave e buone non ho mai creduto. Anzi ho sempre pensato che “noi donne” siamo molto accorte nell’usare la violenza verbale (oserei dire che ci viene insegnata questa violenza, più “femminea” al posto di quella fisica che deve essere di “natura” virile e maschile). Le parole, lo sappiamo, possono essere a volte più profonde e taglienti, perché spesso la ferita non si rimargina. Prima ancora di ritrovarmi in simposi donneschi, dove forse si ragiona poco sulla potenza e violenza delle parole e si è più concentrate nell’indicare le proprie appartenenze, ho memoria di frasi tra bimbe che non sono da meno di una lotta a pugni tra maschi. Dopo Genova qualcuna scrisse che molte donne a Genova avevano subito violenza da parte della polizia o da parte dei black bloc. Ma “alcune hanno condiviso ed agito la violenza, indossando consapevolmente varie divise”.
È così che si nominano e riconoscono le differenze e si esce dagli inganni della presunta “naturale bontà” della donna, con la D maiuscola.
E allora ripenso anche che nel 2001 sempre a Genova ci siamo ritrovate un mese prima del G8 in tante e con passione abbiamo discusso dei nessi che legano femminismi e nonviolenza, consapevolezza del ruolo delle donne nella società e rifiuto di qualsiasi forma di risoluzione dei conflitti che usi la guerra e la violenza. In quel Punto G-Genere e Globalizzazione si è parlato delle paure del nostro tempo, che lo attraversano e ci rendono più fragili e in qualche modo tentati da piccole ma non meno pericolose violenze quotidiane (l’insofferenza verso gli altri, il razzismo verso il migrante e le discriminazioni verso il diverso). Come dicemmo allora tutto ciò non riguarda solo le donne, ma esse possono dare un contributo prezioso, perché se è vero che non siamo tutte uguali è anche vero che spesso la storia delle donne è stata il prodotto di pratiche nonviolente e di scelte che hanno anteposto la cura delle relazioni e della vita, quest’ultima intesa non come simbolo sacro e avulso dalla materialità (penso all’embrione della legge 40 e ai suoi funerali lombardi) ma come espressione del desiderio e della scelta di uomini e donne consapevoli e liberi.
Negli ultimi anni le nuove tecnologie ci hanno quasi reso assuefatti alle molteplici forme di violenza presenti nel mondo, e soprattutto il corpo femminile è tornato ad essere rappresentato come campo di battaglia in cui si combattono presunte visioni del mondo universali e diverse modalità di gestione della vita e della violenza come strumento per controllarla. E come si può notare, le parole usate per descrivere quanto sta avvenendo restano imprigionate ad una logica militare di scontro.
Ecco un buon punto da dove cominciare o proseguire il lavoro: sovvertire i linguaggi e liberarli dalle impronte che lasciano, inventare nuove pratiche che possano interferire con la cultura dominante, fare rete e trasmettere saperi, esperienze e la voglia, nonostante tutto, di continuare a sorridere.

(Pubblicato su Notizie minime della nonviolenza in cammino, http://lists.peacelink.it/nonviolenza)



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