Nei mie libri la musica è un canto collettivo – intervista a Léonora Miano
Léonora Miano ha una presenza avvolgente, qualcosa che ti rapisce mentre la guardi parlare. Nata a Douala in Camerun nel 1973, vive da alcuni anni a Parigi e ha scritto già trenta romanzi, anche se ne sono stati pubblicati solo tre. Il francese è la sua lingua madre e la Francia una sorta di seconda casa, o come dice lei “una tradizione di famiglia, anche mio padre che è farmacista venne a studiare qui e in casa abbiamo parlato sempre francese”. Il suo romanzo d’esordio “Notte dentro” – giudicato dalla rivista francese “Lire” come migliore opera prima del 2005 – ha vinto numerosi premi letterari tra cui il Premio Grinzane Cavour 2008 nella sezione Giovane Autore Esordiente. È tornata in Italia a presentare il suo secondo romanzo “I contorni dell’alba” di recente tradotto sempre da Epoché, casa editrice specializzata in testi delle letterature dell’Africa australe e mediterranea, dei Caraibi, dell’Oceano Pacifico e del Medioriente.
Il suo secondo romanzo è ambientato in uno stato immaginario che è stato dilaniato dalla guerra civile. Accanto ai morti, alla povertà e alla distruzione di una terra, c’è anche la superstizione: Musango una bambina di nove anni è cacciata via di casa dalla madre perché pensa che sia posseduta da un demonio. La bambina viene presa per strada e venduta come schiava, ma nonostante questo cerca la via per ritrovare la madre e ricostruirsi una nuova vita. Un testo che è un pugno allo stomaco anche per lo stile diretto scelto dall’autrice, ma che prende subito anche alla testa per il ritmo musicale con cui è scandita la narrazione e per la capacità di Miano di trattare un tema così difficile con profonda leggerezza.
Una piccola nota biografica, il suo primo romanzo “Notte dentro” è la storia di un ritorno, di una donna africana che vive a Parigi e poi torna nel suo villaggio, nel cuore dell’Africa. Mi chiedevo se c’era qualche riferimento alla sua vita, anche lei sta pensando di tornare in Camerun?
In realtà non racconto la mia vita nei romanzi! Comunque sì penso di andarmene tra qualche anno dalla Francia ma per andare altrove non per tornare in Camerun. Vorrei andare in altro continente, il mio progetto di vita è passare stabilmente degli anni in tre continenti diversi quindi penso che mi sposterò tra quattro-cinque anni. Quando mia figlia sarà maggiorenne, a 18 anni potrò buttarla fuori di casa e andare a vivere la mia vita tranquillamente, girando il mondo [ride].
È molto giovane e ha già ricevuto importanti e diversi riconoscimenti letterari, ha sempre pensato che da grande avrebbe fatto la scrittrice?
Non ho deciso di diventare scrittrice, mi è capitato per caso. Quando ero piccola mio padre era un fan dei musical, ne ho visti tanti ed ero affascinata da quel mondo, sognavo di cantare e recitare. Poi ho iniziato a scrivere ma non considero la letteratura un mestiere. Per me è un modo di esprimersi, che si è manifestato molto presto e non mi ha più lasciata. Faccio fatica ancora oggi a considerarla una professione, è più che altro un modo di vivere.
Lei scrive in francese, non nella lingua del suo paese. Cosa pensa del rapporto tra scrittura e lingua madre quando si ha in qualche modo una doppia identità? In Italia nell’ambito della letteratura migrante, si discute spesso di questo, soprattutto tra gli autori di seconda generazione…
Credo che questo sia un problema di chi si sente sradicato e non assuma la sua europeità, è un fenomeno che nell’Africa francofona non esiste, non perché gli autori non amino la loro lingua materna ma perché in quell’area esistono più di 200 lingue. Se qualcuno decidesse di scrivere in una di queste, in un dialetto, sarebbe letto poco anche in Camerun. Nel mio caso comunque sono cresciuta con il francese, il doualà l’ho imparato dopo.
Veniamo al secondo romanzo “I contorni dell’alba”. Le prime pagine sono molto forti. Da dove è nata l’idea di occuparsi di un tema così delicato eppure così attuale, che coinvolge una giovanissima protagonista, tra stregoneria e tratta delle bambine?
Normalmente uso le informazioni come tutti che arrivano dai media e poi uso molto l’immaginazione. Se leggo un giornale, il rapporto di una ong o vedo un documentario queste informazioni di base evocano in me delle storie, ma poi non vado sul campo a fare domande, non mi documento in senso proprio. Cerco di avvicinare la realtà attraverso la mia immaginazione e provo a immergermi dentro di me, mi chiedo cosa farei al posto del personaggio che descrivo.
In questo testo ci sono tanti dei, tra chiese, sette e stregoneria. Ne ricaviamo una immagine dell’Africa contemporanea molto particolare e dettagliata. Ha assistito a dei rituali o messe?
Sì certo, non sono così giovane alcune cose le ho viste e vissute quando ero in Africa. Le chiese pentecostali stanno aumentando ma c’erano anche prima. Solo che allora chi le frequentava era considerato uno squilibrato o un emarginato, adesso sono semplicemente più trasversali e ci ritrovi persone di tutti i tipi e ce ne sono ovunque anche a Parigi. La scena che descrivo nel libro, quando c’è questa unzione dei fedeli per farli diventare ricchi, l’ho vista in una chiesa africanana a Parigi così come altri l’avranno vista in Belgio o in Brasile.
La giovane protagonista dà giudizi molto forti sul continente africano: ad un certo punto dice che è un paese in cui si danno sempre le colpe agli altri, non ci si assume la responsabilità di andare oltre. Che ruolo hanno le religioni su questa mentalità?
In realtà le chiese sono un sistema in cui si insegna a sopportare, ad accontentarsi del poco di buono che hai. In sè imparare a sopportare non è negativo ma certo è necessario andare oltre. Le sette sono ancora peggio e convincono i fedeli che qualunque cosa fanno il male è sempre più forte e per questo scaricano le colpe su altri.
Come ha costruito i diversi capitoli del romanzo? Ha una struttura molto originale. Ad un certo punto c’è l’interludio, che oltre a rimandare ad uno stacco musicale è intitolato “Resilienza”, qualità molto particolare che riguarda la capacità di affrontare le avversità…
Lavoro molto con la musica, nel sentirla mentre scrivo mi diventa naturale questo tipo di struttura. Per questo libro specifico avevo in mente un gospel specifico e una musica più moderna che mi hanno aiutato a delineare le prime tappe della protagonista Musango. Per essere fedele all’idea di partenza ho poi voluto che tutto il percorso fosse pensato come un canto, una progressione musicale del testo. Ovviamemente non posso trasporre la musica nella narrativa però posso far sì che sia presente e che si sciolga come in questo caso in un canto più moderno. La narrazione inizia come fosse un canto collettivo di schiavi – il gospel – e poi culmina in un canto di liberazione individuale, nel presente.
Il suo testo mi ha fatto pensare a Toni Morrison, tra lei cui opere c’è il bellissimo Jazz, c’è anche lei tra le sue autrici di riferimento?
Certamente, anche se è un riferimeno molto alto! Quando apprezzi e leggi i grandi autori capisci che per fare un buon romanzo non devi imitarli ma crearti un tuo universo, quello di Morrison è unico anche con i suoi difetti. Sicuramente prendere ispirazione dalla musica per fare letteratura è un modo di procedere antico.
Nei suoi romanzi c’è indubbiamente un protagonismo femminile, aldilà delle vicende di violenze o soprusi non manca il senso di ricerca di autonomia e autodeterminazione. Crede come alcuni pensano che ci sia uno specifico di genere nella scrittura?
Credo che le donne siano innanzitutto individui, quindi non sono d’accordo con una idea di letteratura femminile. Per me il maschile e il femminile sono categorie di sensibilità, non si tratta di genere ma di energie, una donna in cui prevalga una energia maschile può scrivere come un uomo e viceversa o può esserci una mescolanza. Io cerco di equilibrare queste due energie e quando mi dicono che nei miei romanzi le donne sono sempre così forte e gli uomini così fragili, rispondo che per quanto mi riguarda il maschile viene sublimato in corpi femminili. Tra l’altro di uomini così fragili, smarriti e timorosi io ne conosco. Così come ho davanti a me l’immagine di donne più forti soprattutto in Africa centrale che non è tutta l’Africa certamente, ma è un fatto che in Africa centrale esisteva un sistema matriarcale.
A proposito di rapporti tra i sessi, rispetto alla violenza sulle donne che anche lei descrive, in Italia e in Francia ci sono molti gruppi attivi per sensibilizzare l’opinione comune e denunciare i casi che restano nascosti. Lei è attiva su questo tema? Pensa che anche la scrittura letteraria può diventare uno strumento di militanza politica?
Non sono particolarmente impegnata in questo tipo di militanza, ma alla sua domanda rispondo che certamente la letteratura può esserlo se lo desiderano gli autori, ma non credo sia la preoccupazione principale. Nell’ultimo libro parlo di un uomo adorabile con i figli e molto violento con la moglie, è un ambeinte alto borghese e lei decide alla fine di non lasciarlo. Mi hanno molto rimproverato per questa storia ma personalmente non mi vieto nessun argomento perchè penso che ogni aspetto della vita può essere reso in letteratura.
pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it