Né Max né Mara sono iscritti al sindacato – Un padre-padrone nella civile Reggio Emilia
[scritto in collaborazione con Massimiliano Boschi]
Confindustria raggruppa, su base volontaria, più di 110 mila imprese, ma tra queste non figura Max Mara. La casa di moda di Reggio Emilia, infatti, nonostante il fatturato vicino al miliardo di euro [1.900 miliardi delle vecchie lirette], le 1.200 boutiques in tutto il mondo, e i 2.700 dipendendi [dei quali l’80 per cento sono donne], è uscita nel 1976 dalla FederTessili, mantenendo comunque un forte peso nell’associazione industriale territoriale, per non riconoscere il Contratto collettivo nazionale di lavoro. Da allora non vi è più rientrata. Responsabile di questo scelta è il Cavalier Achille Maramotti, fondatore e padre padrone dell’azienda. Così, allo stato attuale, l’azienda non ha praticamente relazioni con il sindacato.
Come spiega Gregorio Villirillo, responsabile Cgil del comparto tessile, “siamo presenti in tutte le aziende del gruppo, ma non abbiamo il minimo peso. Il sistema di produzione è ancora legato al cottimo, mentre nel settore commerciale l’azienda stipula contratti differenti da dipendente a dipendente”.
Che la situazione dei lavoratori del gruppo Max Mara non sia proprio idilliaca è vicenda notissima, a Reggio Emilia. Tra gli anni settanta e ottanta ci furono tre vertenze, costate ogni volta duecento ore di sciopero, su questioni di principio, più che su fatti specifici, che però non sortirono grandi cambiamenti. Nel 1988 fu pubblicato un libro dall’emblematico titolo “Non sei pagata per pensare”, dedicato alle operaie tessili alle dipendenze del Cavalier Maramotti. Nel testo si sottolineava come quest’ultimo trattasse i dipendenti “in modo ottocentesco, tra il mito del buon padre e l’autoritarismo più smaccato” e come tentasse di ampliare il suo potere dalla fabbrica alla città.
Solo che, mentre negli anni settanta “era una mosca bianca – come precisa Tiziano Rinaldini della Cgil – oggi appare come il precursore della linea della Confindustria”. Anche perché Max Mara è, di fatto, una multinazionale con grandi ramificazioni nel mondo della finanza, soprattutto quello cattolico del Veneto.
Solo un dipendente e un ex dipendente [tutti e due colletti bianchi] hanno accettato di raccontarci come funzionano le cose all’interno del “feudo” di Maramotti, desiderando però restare anonimi. “Nonostante le numerose ore di straordinario, spesso non pagate – spiega uno dei due – sono pochi i dipendenti disposti a darsi da fare per migliorare le cose. In azienda ci si limita alla lamentela tra colleghi”.
Dipendenti “non timbranti”
Vista dall’esterno, Max Mara può sembrare un paradiso: azienda solida, che non licenzia nè mette in cassa integrazione nessuno, e garantisce ancora il posto fisso. “È vero che nelle aziende del gruppo non licenziano nessuno – spiega una delle nostre “talpe” – ma è solo perché i dipendenti si dimettono da soli. Vi è un grosso turn over, l’azienda sceglie spesso personale alle prime esperienze, a cui affida anche posti di responsabilità, gratificando i dipendenti che danno l’anima per l’azienda. Nel caso che non riescano a tenere i ritmi imposti, magari per impegni familiari, si dimettono, magari scusandosi. È sufficiente verificare il numero di dipendenti ‘non timbranti’: non solo resta elevatissimo ma, guarda caso, sono proprio coloro che fanno molte ore di straordinario a diventare ‘non timbranti’. Consolati da un innalzamento del superminimo, che, a fronte delle ore passate in azienda, può essere considerato un regalino”.
Ogni tanto si alza qualche critica, qualche accusa, all’azienda, di trattare i dipendenti come bambini. La smentita dell’azienda arriva con una “letterina di Natale” che, dato il tono, invece conferma: “C’è ancora qualcuno che mette in dubbio che l’azienda riconosca piena dignità ai dipendenti. Esistono ancora persone che pensano, affermano e scrivono che trattiamo i dipendenti come bambini o addirittura come servi. Mi sento di affermare che tutto ciò è falso. […] È chiaro che, per guardare con ottimismo al futuro, è indispensabile continuare nella strada della fiducia reciproca, dell’impegno e del rispetto dei valori e delle regole…”, ecc.
L’atteggiamento dell’azienda pare comunque dare i suoi frutti. L’altra “talpa”, quella che ha trovato la forza di andarsene dall’azienda, ci racconta di alcune dipendenti che puntavano la sveglia alle 17 per ricordarsi di scendere a timbrare il cartellino. “Poi tornavano in ufficio a lavorare. A quel punto gratuitamente. Chi segue le sfilate – prosegue – è poi costretto a fare orari interminabili, magari all’estero. A qualcuno è toccato lavorare fino a venti ore consecutive per le sfilate di Milano e Parigi. Pagate con un rimborso spese. Di una “diaria” che rispetti le effettive ore di lavoro svolto, nemmeno si parla”.
Ma è anche evidente che, in un sistema lavorativo alla Max Mara, anche i racconti dei lavoratori assumono una sfumatura diversa: “Probabilmente l’azienda si muove con attenzione, perché lamentele individuali non si trasformino in arrabbiature collettive”, riflettono Rinaldini e Villirillo: “L’azienda li tratta più da servi che come schiavi. È un atteggiamento molto diverso, nell’uno e nell’altro caso”.
L’azienda e le amministrazioni
Nonostante l’azienda sia fuori da Federtessili, Giuseppe Prezioso, ex presidente dell’Associazione industriali reggiana, marito di Ludovica Maramotti e amministratore delegato di Imax, l’azienda del gruppo che si occupa di maglieria, è ora entrato nella Giunta nazionale di Confindustria e si occupa di interventi infrastrutturali. Il “genero-manager”, di recente, si è lanciato in proclami che hanno destato ulteriori preoccupazioni nel mondo sindacale. “Personalmente mi auguro che il modo attraverso il quale è stato avviato il confronto tra le categorie economiche, le imprese e le diverse amministrazioni locali della provincia di Reggio, possa rivelarsi di successo e rappresentare un modello per le altre realtà del paese”, ha detto.
Non è difficile pensare che Prezioso si riferisse alla volontà di non rispettare i contratti nazionali di lavoro, e la frase ha suscitato qualche polemica. Sia Rossano Di Nicola, di Rifondazione [che è all’opposizione], che Gianfranco Riccò, della sinistra Ds, invocano un cambiamento di rapporti ed una maggiore pressione sull’azienda, “per far sì che non vengano più concesse agevolazioni e che non si ritenga normale il metodo di relazioni lavorative stabilite da Max Mara”. È, infatti, tutto un sistema di poteri ed equilibri, che sicuramente non aiuta il sindacato, ma che riguarda l’intero paese e il territorio, quindi le amministrazioni locali.
“Per fortuna – conclude Rinaldini – si è riaperto il conflitto sociale, soprattutto i giovani danno segni importanti di voler riprendere in mano le fila del loro lavoro e, molto più rispetto al passato, tutti sono chiamati in causa”.
(pubblicato su Carta 21/2002, www.carta.org)