Barbara Bonomi Romagnoli | Una Band per Carta – intervista ai Têtes de Bois
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Una Band per Carta – intervista ai Têtes de Bois

Roma, Campo de’ Fiori. Il 15 febbraio 1992 nevicava. E sotto la neve i passanti furono attratti da un’insolita performance, proprio ai piedi della statua di Giordano Bruno: sei musicisti, un gruppo elettrogeno con un’ora di autonomia e l’anima della musica racchiusa in un furgoncino, un Fiat 615 del 1956. A suonare erano i Têtes de Bois, band romana composta da Andrea Satta [voce], Carlo Amato [basso], Luca De Carlo [tromba], Angelo Pelini [pianoforte], Maurizio Pizzardi [chitarra], e Gianni Di Rienzo [batteria]. Da allora i Têtes de Bois continuano a girare l’Italia. Con l’ultimo cd, «Ferrè, l’amore e la rivolta», hanno vinto il premio Tenco 2002, come migliori interpreti di musica d’autore.
Tra un viaggio e l’altro hanno incontrato anche Carta, hanno deciso di diventare soci, e il 19 settembre suoneranno a Roma per sostenere la «ricapitalizzazione» della nostra cooperativa. Abbiamo conversato con Andrea Satta,anche autore e traduttore dei testi, che ci ha raccontato la loro storia.

Cominciamo da Giordano Bruno. Perché avete scelto di suonare per la prima volta proprio in quella piazza?
È evidente a tutti il valore simbolico della statua di Giordano Bruno, eretico finito sul rogo. Ma abbiamo scelto quella piazza soprattutto perché era l’unica senza il vincolo delle belle arti. Era l’ideale, per noi. Avevamo da poco comprato il furgoncino da un rigattiere abbordato sul raccordo anulare. Eravamo nei dintorni della Rustica, periferia est di Roma, forse la più povera della città. Quando abbiamo visto il Fiat 615 che procedeva sbuffando a cinquanta all’ora, ci siamo accostati e abbiamo chiesto al tipo alto e grosso che lo guidava: «Lo vendi?». Lui ha fatto una faccia come per dire: «e chi se lo compra?». Ovviamente lo abbiamo comprato noi.
Dopo Campo de’ Fiori il furgoncino ha girato in lungo e largo: le prime edizioni di Arezzo Wave, il festival di Recanati, il Friuli, la Romagna, il Piemonte, fino a un tour delle Langhe. Il camioncino coincide con la nostra idea di movimento e di creazione: non ci piacciono le parate musicali, ma le incursioni artistiche dove normalmente non arrivano né la musica né il teatro. Il camioncino è la nostra zattera che non chiede permessi, un tappeto volante. Che resiste, vista l’età, grazie a una fornitissima rete di meccanici. «Pezzi di ricambio», disco del ’97, ha in copertina le sue ruote, sempre pronte per partire.

Perché il pendolarismo vi attrae tanto?
Al festival di Stradarolo [musica, teatro, arti su strada, ndr.] abbiamo scelto di suonare sulle corriere dei pendolari. Lavoriamo nei luoghi di transito perché il pendolarismo è il timbro «di fabbrica» della vita di molti. Lo è in modo inevitabile, strutturale, coatto, al quale non puoi sottrarti, a meno che tu non decida di andare a vivere in Patagonia. Ci interessano la mobilità, i passaggi, gli intermezzi, le incursioni. Il movimento è nelle corde dei Têtes de Bois perché vogliamo arrivare in posti dove, senza agilità, non si potrebbe arrivare. È divertente, perché questo implica una lunga preparazione, come quando giochi: a volte i preparativi sono molto più stuzzicanti di quello che andrai a fare. Il pendolarismo è il trasferimento, anche in senso lato, che appartiene a tutti. Ma il camioncino è anche il nostro luogo di lavoro, dove abbiamo vissuto dolori, felicità, speranza. Non è un’icona o una trovata pubblicitaria.
Lo abbiamo usato per suonare ovunque: nelle metropolitane, sulle scale mobili, sulle corriere, nei vicoli, nelle stazioni ferroviarie, negli androni della posta, ogni volta che uno spazio di lavoro poteva diventare un luogo artistico, dove sostituire, cambiare il segnale, far capire che quel posto per ognuno può diventare altro.

Pensate mai all’effetto che può avere la vostra azione artistica sulle persone che incontrate in questi luoghi di transito?
Non pensiamo tanto al risultato, ma alla suggestione che lanciamo: chiunque, se e quando vuole, ci ripensa, magari dopo dieci anni. È certamente molto stimolante pensare di cambiare qualche «connotato» di queste persone, e dire: vediamo che succede. Io credo che le cose non abbiano sempre una reazione immediata, non c’è sempre la relazione limpida e definita di causa-effetto. Io ho letto oggi dei libri che vent’anni fa non volevo neanche vedere, amato degli autori che prima non amavo, ho capito le scelte di alcune persone dopo diversi anni.
Per me ha senso, artisticamente, far partire comunque qualcosa. Poi ci sarà chi è già sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Per fare un esempio: le poesie sono ancora più belle se che qualcun altro le legge. Altri occhi aggiungono e interpretano in maniera imprevedibile e originale ogni opera d’arte.

Eppure la poesia non è un linguaggio immediato, di facile accesso.
Sono convinto che la poesia lasci ampia libertà e nella mia testa la poesia è anche un gesto, qualunque tratto, anche impercettibile, che dà la possibilità di aggiungere qualcosa. L’importante è avere queste chances, innescare immaginari e cose che non sono definite una volta per tutte, perché sono attinenti al tuo stato d’animo, al tuo stile di vita, al passato che hai avuto, alle persone che hai incontrato, se sei innamorato o no, se sei stato innamorato e ora non lo sei più…

Non c’è il rischio che si inneschi un circuito di possibilità solo virtuali, forse troppe?
È un rischio, sicuramente, ma alla fine la magia si crea, per esempio in un concerto, dove assisti alla passione comune per un viaggio artistico. Ci credo perché lo vedo. In quel momento artisti e pubblico sono dalla stessa parte. Non amiamo le affabulazioni facili, del tipo «su le mani – tutti insieme – accendini». L’incontro c’è perché c’è poesia, in quegli attimi. E perché canto, e suoniamo, per ogni singolo spettatore, per ogni persona che è lì, non per tutti assieme. Ognuno è lì da solo, e in quel momento cerca una relazione con te che sei l’artista. Perché dovresti cantare per tutti, per un generalissimo pubblico, per farli sentire parte di un movimento senza testa? È molto meglio che ognuno di loro pensi: io [spettatore] e lui [cantante] stiamo vivendo un’emozione, forte e coinvolgente. Il noi è una constatazione oggettiva, che viene dopo, mai una premessa.

«I canti più belli sono quelli di rivendicazione», diceva Leo Ferrè, al quale voi avete dedicato un album. Un concerto per Carta, nel cuore della periferia di una grande città, è qualcosa di più di una rivendicazione: è un riconoscimento, un dono… perché avete deciso di farlo?
Perché leggiamo Carta da sempre e ci sembra giusto portare la nostra testimonianza, in un momento decisivo di questo tempo. È un passaggio che deve essere acchiappato e vissuto. È un progetto che sta resistendo, anzi si sta allargando, e penso sia un’idea molto coraggiosa. Quando ci sono elementi così bisogna schierarsi da una parte, senza troppe domande, come quando ti piace una ragazza, non ti chiedi come va o come non va, ti butti…

Così come si buttava Ferré, che forse però molti non conoscono bene. Puoi fare un breve ritratto dell’autore che più vi ha ispirato?
Un grande poeta, un genio musicale, un personaggio scomodo e anarchico, un grande amante degli animali, e sempre coraggioso nei temi che ha affrontato. Ci sono canzoni di Ferré come «Les étrangers» [Gli stranieri] che vanno al ritmo del mio respiro, di fronte alle quali non si può restare indifferenti. Ma parlare di musica è difficile. Come fai a spiegare cos’è un canzone per te? È come l’amore che ti prende e tu non lo sai spiegare, come la donna che ami, si crea qualcosa di inspiegabile, non si può scomporre in modo razionale. È irrazionale come innamorarsi di un artista come Leo.

Tornando alle vostre attività, oltre ai concerti avete sperimentato anche situazioni come quella alla Ferrovia dell’Allume, il tratto abbandonato del vecchia linea ferroviaria che collegava Orte a Civitavecchia. Cosa è successo ?
Era il luglio dello scorso anno, e lì abbiamo organizzato una serata con altri artisti, molti nostri amici. C’erano altri musicisti, ma anche attori e danzatori. Abbiamo letto e fatto leggere brani di Italo Calvino, affiancando alle sue parole performance artistiche di vario genere. In casi come quello si creano delle regie improvvisate e le parole chiave dello spettacolo che si realizza sono lo spiazzamento, lo spaesamento, l’incredulità, la sorpresa, la magia, la capacità di assistere a una trasformazione, l’eversione e il cambio di riferimento di memoria che quel luogo ha, fino a quel momento, significato per una persona. Dopo ci hanno scritto tante persone che sono tornate da sole in quel luogo, scoprendo altre suggestioni ancora, che solo posti simili possono offrire. È la conferma di quando la poesia diventa tratto, gesto, movimento nello spazio, dolcezza.
A volte basta meno di una lettura per essere poeti: il barbiere dove andavo io da piccolo era un poeta, uno che spostava la testa con una percezione precisa del suo rapporto con le cose e la consapevolezza straordinaria del suo mestiere.
Era siciliano con i baffetti neri e aveva un suo modo di fare le cose, che era un universo mondo. Quando riesci a comunicare un universo mondo, un immaginario, fai poesia, anche senza rime incrociate o baciate. Poi la tecnica fa il resto, infatti lui tagliava bene i capelli. Ho sempre pensato che la schiuma lasciata dalla barca è la cosa più bella della barca, e così di un cantante mi interessa, più di una nota perfetta, che faccia quella schiuma attorno che ti fa tornare…

In quali altri luoghi, dopo Allume e il festival di Stradarolo, avete ritrovato «rime sparse»?
Il Delta del Po, e le sue rive tra Luzzara e Suzzara, da Reggio a Mantova. Lì abbiamo filmato in bicicletta, altezza pedali, tutto quello che il Po lascia sulla riva scendendo dai monti al mare: giacchetti, succhi di frutta, cartacce, mazzi di fiori secchi, siringhe, preservativi, lettere, carta igienica… dietro tutto questo c’è una mano, un desiderio, un rifiuto, un gesto, una rabbia. I luoghi hanno questa grande chance, se letti in «contropelo» ti possono dare delle sorprese magnifiche, a volte devi solo cambiare il punto di vista.

Nei vostri lavori la musica si confonde con la poesia, la danza, il mimo, il teatro e le immagini. Usate spesso la proiezione di filmati?
Sì, abbiamo usato spesso i filmati, ma anche film, come quello del 1958 con Marcello Mastroianni e Rosanna Schiaffino, «Un ettaro di cielo». Ci piacciono i panorami, i ponti, il tempo atteso. L’attesa è un altro tema che abbiamo a cuore, è il tempo della diastole, compresso tra quello che hai già fatto e quello che devi fare. Per molti è un tempo sprecato, eppure qualche volta riesce a emergere fino a diventare un tempo visibile.
L’attesa, per i Têtes de Bois, è un atteggiamento psicologico, una condizione che anziché dare la priorità agli appuntamenti, alle cuspidi, dà importanza ad altri passaggi della quotidianità, ai trasferimenti da una cuspide all’altra, da un momento topico all’altro.
La maggior parte della vita passa attraverso questi trasferimenti continui e in quel tempo si formano caratteri, punti di vista, posizioni. Noi abbiamo pensato che in quel tempo si può agire artisticamente. Ho visto persone leggere romanzi sulla tangenziale e scrivere poesie ai semafori, e maledire quando scatta il verde. Non mi sembra tanto male. È terribilmente sovversivo lavorare su quei momenti, che rischiano di non far arricchire nessuna multinazionale.

Dunque le «teste di legno» si fanno facendosi. Ci togli la curiosità per il nome del gruppo?
Le Têtes de Bois sono teste di legno, burattini, marionette senza filo. Ci si brucia tanto, è indubbio, ma è un’energia che torna in circolo. Basta uno sguardo con chi ti ascolta, che coglie la nota o l’errore. Devi farti capire, accettare il rischio che molti ti fraintendano e non ti comprendano. Ma si può essere molto felici, hai in mano una grande… carta.

pubblicato su Carta, www.carta.org



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