Barbara Bonomi Romagnoli | Un po’ per amore, un po’ per rabbia – intervista a Pino Cacucci
235
post-template-default,single,single-post,postid-235,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,select-theme-ver-1.6.1

Un po’ per amore, un po’ per rabbia – intervista a Pino Cacucci

Federico Fellini disse di lui che “è un artigiano, un costruttore di trame, di atmosfere e di personaggi”. Aggiungere altro è certamente superfluo e per questo Pino Cacucci non ha bisogno di grandi presentazioni. Scrittore, traduttore di molti importanti autori latinoamericani, da Paco Taibo II a Fajardo, e appassionato tra l’altro di Messico, ribelli e sognatori.


Nel 2001 raccontò la storia di donne e uomini che avevano capito che “…la capacità di stupirsi, insieme all’utopia, è un buon rimedio per non diventare cinghiali dotti”, per parafrasare Fabrizio De Andrè. Nel corso degli anni Cacucci ha continuato a ricercare storie così, le ha fatte sue e poi ce le ha restituite sotto forma di romanzi ma non solo. È di recente uscito da Feltrinelli “Un po’ per amore e un po’ per rabbia” (410 pagine, 18 euro), un volume che raccoglie diari di viaggio, scritti polemici, recensioni e introduzioni ad altri libri, ricordi e riflessioni.
Una maniera per condividere la ricchezza e l’esperienza di una vita vissuta attraversando una bella fetta di mondo, ma anche un pezzo di memoria collettiva, che è fatta di dettagli del quotidiano o momenti intimi che possono darci tanto. Come quando a proposito della pubblicazione dei diari di Frida Kahlo, nel chiedersi se fosse giusto divulgarli o meno, Cacucci scrisse “È dunque una profanazione? Non lo so. È certo però che saremmo più poveri, senza simili profanazioni”.
È un libro che si può leggere in tanti modi, tutto di seguito o saltando qua e là tra le varie sezioni, seguendo una propria inclinazione. L’importante è vagabondare in e con esso. O, come direbbe Cacucci, tornare per poi ripartire.


Hai cominciato prima a viaggiare e poi a scrivere o sono due esperienze andate di pari passo?
Sono nate insieme. Ho cominciato a scrivere alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta. I racconti del primo libro uscito nel 1988 risalgono infatti all’80-82. È avvenuto in concomitanza con la fine del movimento di quegli anni, che era stato un movimento vissuto quasi completamente in strada, in piazza, molto intenso. Poi c’è stato il riflusso, la fine di una stagione non soltanto politica. Come altri mi sono rinchiuso a scrivere, anche per sfogarmi. Poi però non mi piaceva neanche l’Italia degli anni Ottanta, quella della Milano da bere per intenderci, e allora ho iniziato ad andare via, a viaggiare. Sì forse è stata una fuga, all’inizio ho trascorso diverso tempo a Parigi e Barcellona, i primi racconti rimandano a quelle città.
Sei traduttore e scrittore a tua volta tradotto. Fino a che punto è possibile tradurre l’altro/a senza arrivare a “tradirlo”?
La traduzione è davvero una mia passione, ho appena ricevuto il Premio Gijon alla carriera. Settanta libri tradotti è una grande soddisfazione.
C’è un confine che continua a mescolarsi, riguarda sia quanto io venga influenzato dai testi che traduco e sia il rischio che possa metterci del mio. Finora sono riuscito a mantenere un giusto equilibrio, rispettando soprattutto il senso e le emozioni che l’autore vuole trasmettere. Questo significa che non bisogna essere arroccati alla traduzione letterale se questa perde senso nella lingua italiana.
Perché hai deciso di fare questa raccolta di testi di vario genere?
Per vari motivi, col passare degli anni mi dispiaceva che alcune cose andassero perdute. Avevo accumulato soprattutto molti testi pubblicati nei giornali, che tra l’altro spesso piacciono di più perché in essi ci sono aneddoti o curiosità. Mentre io sono più affezionato ai miei romanzi come Demasiado Corazon o Nahui. Eppure il più ristampato è La polvere del Messico, dove appunto c’erano storie di viaggio sul paese. In qualche modo è stata riscoperta, anche dagli editori, la narrativa di viaggio che sembrava essere relegata all’800. Oltre, quindi, a tutte queste storie di vagabondaggi avevo voglia di mettere anche le mie invettive, alcune delle cose scritte per il blog sulla guerra o i tanti soprusi a cui assistiamo.
Nella prima parte si passa dall’America Latina a città italiane sparse per la penisola. Quale è il filo rosso che accomuna questi luoghi?
C’è stata una scelta a più riprese, una continua scrematura nella scelta dei brani da mettere. Apparentemente sembra arbitraria, il senso comune lo dà la curiosità per i luoghi conosciuti. Ma anche la necessità di far capire che non ho scritto solo di grandi altrove, come a volte mi viene detto. Ma anche dell’Italia, di Bologna.
Bologna, appunto. È su tutti i giornali la decisione di dare manganelli e spray urticanti ai vigili. Cofferati apprezza, e tu?
Credo che ci sia una ondata di isteria, orchestrata da almeno due anni. I media non fanno che parlare di stupri, furti, creando un clima di paura artefatto visto che i dati dicono esattamente il contrario, ossia che la delinquenza è diminuita. Un lavaggio del cervello collettivo e la mia tentazione è proprio quella di starmene per conto mio. Ti prende lo scoramento. Non è una fuga vigliacca, a volte non hai nemmeno le parole per rispondere a certi linguaggi.
Ma non pensi che più ci si ritira e più si cede acqua al mulino degli altri?
La sensazione è che tutti si accodino a quel mulino e allora mi viene in mente quel detto…quando il vento è troppo forte, i giunchi si piegano e aspettano che il vento passi.
Certamente ci sono dei problemi di degrado concreto e sono quelli di una società allo sbando. Con la precarizzazione della vita, non c’è più voglia di fare davvero qualcosa fino in fondo. Nessuno si affeziona più al proprio mestiere, c’è l’atteggiamento del fare il meno possibile.
Del resto c’è anche un copione che si ripete quando c’è o si avvicina una crisi economica ed è la necessità di un nemico su cui sfogarsi.

Tornando al libro. C’è una sezione che si intitola “Leggere per r/esistere”. Che significa per te resistenza?
In passato si è pensato che resistenza fosse anche violenza da opporre a violenza, credo che oggi sia chiaro che è necessario trasformarla in altro. Resistere significa avere una coscienza e agire in base ad un minimo, per non dire un massimo, di etica. Incidere così nelle proprie scelte quotidiane. C’è in voga un antivalore dell’arricchirsi, del successo e di contro non sembra esserci più neanche il concetto di reato. Contrastare tutto questo andamento mi sembra difficile, singolarmente si può tentare di dimostrare che non è così.

Ma non credi che si possa così cadere nell’individualismo? Che fine hanno fatto i movimenti? Sembrano essere in una fase di riflessione e solitudine, c’è chi dice che siano morti…
Penso che certamente ci siano atteggiamenti collettivi che possono influire, come le scelte che riguardano la messa in discussione delle multinazionali o simili. E non credo che le persone che hanno preso parte ai movimenti degli ultimi anni abbiano smesso di pensare o produrre pensiero. Ma c’è sicuramente tanta solitudine, una immane frustrazione data dalla guerra. Quando milioni di persone scendono in piazza contemporaneamente in più città, ti dicono che sono la “seconda potenza mondiale” ma poi non cambia nulla, è umano che si abbia un senso di grande impotenza. Non c’è nulla di morto o scomparso ma anzi nascono molte situazioni contro questioni specifiche. Penso alla tav, agli inceneritori. Non si tratta di localismi ma territori che si difendono e lì si vede la partecipazione di tanta gente che non è più all’oscuro di quello che accade. In Campania ormai si sa che i bimbi nascono deformi per tutto quello che è accaduto in questi anni con i rifiuti.
Sei piaciuto a Federico Fellini e hai avuto diversi rapporti con il cinema. Che esperienza è stata?
Lo descrivo bene nell’ultimo racconto…direi che ho capito che la scrittura delle sceneggiature non fa per me, anche se ho avuto delle belle collaborazioni con Salvadores e altri.
Tra gli incontri importanti in questo ultimo libro racconti quelli con Rigoberta Menchù e Alberta Tista. E hai scritto di altre donne coraggiose: la biografia di Tina Modotti e il romanzo su Carmen Mondragon. Stai per regalarci una terza storia di donna?
La storia di Tina è un mio piccolo orgoglio, perché quando mi sono messo sulle sue tracce in Italia e altrove ancora non se ne parlava per nulla. Solo in Messico era conosciuta, mentre Carmen l’avevano quasi dimenticata. Ci sono altre donne, anche se non citate, ovviamente in giro nelle mie storie… no, ora non ho in tasca una terza storia memorabile. Anche se in realtà un progetto c’è, ma arrivo per ultimo! Nel 2009 dovrebbe debuttare un testo teatrale su Frida Kahlo, ripercorro in maniera intima alcuni momenti della sua vita. Ma è ancora in lavorazione.

Ultima domanda, ti senti un bastiancontrario sempre e comunque?
Sono bastiancontrario perché coltivo il dubbio, l’andare a guardare dietro alle notizie. Ma non lo sono per principio o partito preso. Per alcune cose mi indigno molto, per altre di meno. Diciamo che non passo la mia esistenza in preda ad attacchi di bile. In passato ero più esposto, effettivamente ad un certo punto sopraggiunge l’istinto di sopravvivenza. Di sicuro diffido dalle certezze.


Pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi