Barbara Bonomi Romagnoli | Tra differenze e scambi di genere – scritto in collaborazione con Rosa Saugella
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Tra differenze e scambi di genere – scritto in collaborazione con Rosa Saugella

Non è facile “fare una mappa” dei femminismi italiani, sostiene Rossana Rossanda in un articolo su Il manifesto del 31 marzo, ma è possibile individuare due “principali posizioni rispetto al fare politico”. Sostiene Rossanda che “l’una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione; […] e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l’uno e l’altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. […] La seconda posizione, all’inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto – il conflitto è comunque un rapporto – un’eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile”. Le due posizioni lucidamente colte da Rossanda sono presenti nel femminismo italiano da lungo tempo, da quando già negli anni Settanta Carla Lonzi criticava l’uguaglianza formale tra donne e uomini e riteneva invece necessario affermare la disuguaglianza e differenza esistenziale tra i due sessi per smascherare il modello patriarcale, causa dell’oppressione reale delle donne.

C’è chi ritiene che negli scritti provocatori e innovativi di Lonzi si possano rintracciare delle questioni che poi diventeranno dirimenti negli anni Ottanta per le teoriche femministe della differenza sessuale (in particolar modo la comunità di Diotima a Verona, tra le cui fondatrici ci sono Luisa Muraro e Adriana Cavarero). Il pensiero della differenza ha da subito posto l’accento sulla neutralità del linguaggio e la necessità di contrapporgli pratiche e linguaggi sessuati ma soprattutto la costruzione di un “ordine simbolico” femminile alternativo alla tradizione maschile e maschilista. Una filosofia che ha sottolineato molto anche l’inscindibilità del piano simbolico da quello materiale, ossia l’esclusione delle donne dalla scena pubblica è causata non solo da motivi economico-sociali ma anche dalla mancanza di modelli culturali di riferimento. Per dirla con le parole di Rosi Braidotti: “Il tratto più comune della riappropriazione femminista radicale della differenza è la critica al valore trascendentale e universale accordato al soggetto maschile, la controparte del quale è il sacrificio simbolico del femminile, la sua messa tra parentesi. Questa squalifica simbolica è coestensiva all’oppressione materiale, socio-economica delle donne reali. La radicalità di questa posizione consiste proprio nel rifiutare di separare il simbolico dal materiale, indicando così che il sacrificio del soggetto femminile si confonde con gli stessi fondamenti del vincolo omosociale e dell’ordine culturale”.

Porre quindi la differenza come costitutiva del rapporto tra i sessi fino a creare due ordini simbolici paralleli e che certamente potrebbero dare origine all’incomunicabilità a cui fa riferimento Rossanda, ma anche il rischio, più volte paventato, che una teoria del genere riproduca al “femminile” quei rapporti di gerarchia e subordinazione che vengono criticati nella società patriarcale e nei rapporti uomo-donna.

A questa concezione in qualche modo essenzialistica del soggetto, sia esso uomo o donna, ha risposto,tra le altre, Judith Butler, filosofa statunitense che di recente ha tenuto a Roma la sua prima conferenza in Italia, che nei suoi scritti ha invitato a considerare la “complessa storicità del binarismo di genere” come “qualcosa che è inscindibile dalle relazioni di disciplina, regolamentazione, punizione”. Nel suo celebre Bodies That Matter (Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, 1996) Butler scrive di voler contrastare la violenza delle norme di genere, sovvertire così anche il genere e le presunte identità, per “poter allargare le possibilità” e trovare un “posto tutto per sè” fra maschile, femminile e molto altro, senza rigide classificazioni o gerarchie nelle quali anche il femminismo incorre. Un approccio completamente diverso che ha ispirato la cosiddetta teoria queer, formula coniata da  Teresa de Lauretis in ambito anglosassone. Un pensiero stimolato molto dagli studi del femminismo lesbico e che ha messo in discussione la naturalità dell’identità di genere, dell’identità sessuale e delle scelte e pratiche sessuali di ciascun individuo.

Si tratta,secondo i sostenitori di questa tesi, di identità sempre costruite socialmente e aderenti a delle norme che controllano i corpi – e le menti – dei singoli individui. Un pensiero scomodo e sconveniente, che mette in gioco profondamente certezze e stereotipi, per mettere al centro del discorso il desiderio nelle sue molteplici forme. Ma anche una maniera radicalmente nuova di porre in discussione un “io” cartesianamente inteso e che si vorrebbe sovrano e capace di controllo totale sul sé, mentre la vita reale ci dice che non è così e che la nostra soggettività si forma attraverso un continuo scambio con gli altri e attraverso pratiche di riconoscimento differenti di volta in volta. Un altro modo per dire che gli “scambi di genere” sono essenziali per criticare e sovvertire le norme che vorrebbero controllare i nostri corpi.

 

pubblicato su Left, www.avvenimentionline.it



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