Barbara Bonomi Romagnoli | Sfidare gli oppressori con la compassione – intervista ad Alan Clements
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Sfidare gli oppressori con la compassione – intervista ad Alan Clements

Non lesina parole, ha voglia di raccontare e lo fa con pacatezza e passione assieme. Alan Clements è un giornalista statunitense e non ha ancora chiaro il perché sia diventato monaco buddista. A distanza di trent’anni dalla sua scelta è sicuro che allora, negli anni Settanta, ovunque si girasse vedeva “solo guerre, genocidi, stupri e degrado. Politici che non facevano che mentire, interessi societari programmati solo per rispondere alle necessità di alcune lobby. Mi sentivo un alieno, tutto questo non mi apparteneva. Se non fossi stato così attento a quello che mi accadeva intorno probabilmente sarei diventato anche io così, avrei vissuto a Washington, con due figli e un garage, magari sarei diventato anche un diplomatico…”.

Racconta che ha spingerlo verso questa trasformazione profonda della sua vita è stato un misto “di desiderio di cambiamento e terrore. Ho lasciato il college dove avevo una borsa di studio e mi sono iscritto ad una università buddista, volevo studiare la filosofia orientale con i detentori di quella tradizione, poi dovevo scegliere se andare in Tibet o Birmania in un monastero e sono andato in Birmania, anche se non conoscevo nulla di quel paese e non sapevo neanche che fosse governato da una dittatura…”.
Da quel momento la sua vita è cambiata ma il mondo è ancora pieno di guerre e la Birmania è sempre governata da un regime che tiene reclusa da circa vent’anni il premio nobel per la pace Aung San Suu Kji. Clements è riuscito ad incontrare San Suu Kji più di dieci anni fa. Da quella lunga conversazione è nato un libro, per la prima volta tradotto anche in Italia [La mia Birmania, Corbaccio editore, 368 pagine, 18 euro] con una edizione aggiornata con nuove interviste. Un libro disarmante, nel quale Aung San Suu Kji spiega cosa significa portare avanti con determinazione una tenace lotta nonviolenta contro i soprusi e le ingiustizie. A volte può sembrare un testo lontano anni luce da noi, forse per via dell’approccio buddista così diverso dalle nostre culture occidentali. Un ritratto complesso e non lineare di una donna che non smette di ripetere, anche grazie all’impegno di molti altri, che la lotta del popolo birmano per la libertà e la democrazia è anche la nostra lotta. Negli ultimi anni Clements, che abbiamo incontrato a Roma nelle scorse settimane, ha fondato il World Dharma Instuitute [www.worlddharmaonlineinstitute.com] che è diventato un network internazionale di artisti, monaci e attivisti impegnati a sostenere la causa del popolo birmano.


É più tornato in Birmania?
No, nel 1996 sono stato cacciato dal paese e messo in una lista nera. Ho provato più volte a tornare ma ho ricevuto solo rifiuti e sono stato dichiarato nemico dello stato.

Abbiamo saputo che San Suu Kji ha fatto recentemente uno sciopero della fame, lei ha altre notizie e contatti più diretti?
Adesso su Aung Su San Suu Kji ho le stesse notizie che avete voi. Ma quello che ha fatto non era un vero e proprio sciopero della fame. Ha rifiutato il cibo che le viene mandato dal regime e ha utilizzato solo le poche scorte che aveva in casa. Un modo per esprimere il suo dissenso a chi la opprime.


Qual’è il messaggio fondamentale che San Suu Kji le ha trasmesso quando vi siete incontrati?
Quando ho incontrato San Suu Kji lei mi ha pregato di far sapere al mondo che tutti in Birmania sono prigionieri nel loro stesso paese. Mi sembra di vedere lei rispondere a questa domanda, per lei la cosa più importante è che si sappia che 50 milioni di persone sono isolate, imprigionate, torturate, sottoposte ad abusi dal regime e ai lavori forzati. Muoiono di fame in un paese dove non ci sono diritti umani. Il mondo deve conoscere questa situazione.

A proposito di questo, nel libro San Suu Kji ripete più volte che non intende essere vista come una eroina o che venga sottolineato solo l’aspetto del sacrificio che la sua scelta implica. Eppure spesso il focus è concentrato solo su di lei, che cosa si può fare perché non diventi un mito o un simbolo vuoto?
Credo che la cosa migliore sia come ha fatto lei, espandersi. Da madre di due figli a madre di una nazione. Credo si debba capire come lei rappresenti una lotta epica, nel senso di una lotta che sfida gli oppressori attraverso la ricerca e l’espressione di sentimenti di amore e compassione. Lei dice che il suo isolamento è insignificante rispetto allo stato in cui versa la sua nazione e la sua lotta è simbolica nel senso che è globale. Ognuno di noi è un microcosmo. La rivoluzione dello spirito di cui parla lei non è solo individuale ma è globale perché c’è un legame spirituale che riguarda tutte e tutti. Solo quando avremo compreso questo capiremo la lotta di queste persone in Birmania. E forse avremo chiaro che come l’ossigeno è indispensabile per vivere, così lo sono i diritti umani e la libertà. Per questo lei ci chiede di usare la nostra libertà per sostenere la loro causa.

Non crede ci sia dell’ipocrisia da parte delle democrazie occidentali, da una parte fanno tante dichiarazioni di principio anche sulla causa dei diritti umani in Birmania, dall’altro mettono in piedi Guantanamo e politiche spesso solamente discriminatorie e securitarie?
Questo è un argomento che prendono in considerazione gli stessi membri della dittatura. Perché, dicono, dovremmo seguire il modello di coloro che ci hanno oppresso per molti anni? La Birmania è stata colonizzata dal Regno Unito per circa 150 anni e quando un membro dell’Unione europea o dell’Onu va a parlare al regime di democrazia è visto come se Hitler parlasse agli ebrei. Hanno addirittura accusato Aung San Suu Kji di aver sposato un inglese.
Sì forse c’è una forma di ipocrisia in generale, e certamente il problema è più complesso di come viene presentato. Ma San Suu Kji non guarda alla democrazia americana o italiana, guarda alla sua gente che adesso è in estrema difficoltà. Aung San Suu Kji e con lei i birmani vogliono che si smetta di sostenere economicamente le persone che li opprimono, di non vendergli armi o creare le risorse perché la giunta possa comprare le armi. La domanda che loro pongono è: ci odiate così tanto da volere che la gente continui a vivere prigioniera e che non sia instaurata la democrazia?
Il popolo birmano è il primo a pagare il prezzo dell’ipocrisia occidentale e proprio per questo ha diritto alla libertà.

Nella versione italiana del suo libro c’è anche l’intervista a U Gambira, uno dei monaci protagonisti delle proteste del 2007. In questo momento è ancora in prigione, sa quali sono le sue condizioni?
U Gambira deve affrontare ben 17 capi di accusa e tra questi c’è anche il tradimento quindi potrebbe andare incontro alla pena di morte. È gravemente malato e di recente ha detto ai suoi avvocati di non occuparsi più di lui perché la giustizia è così compromessa che non vale la pena che perdano tempo con il suo caso. Senza dimenticare che ci sono altri 2170 prigionieri politici che subiscono torture e ingiustizie nelle carceri birmane.

Pensa ci sia una maggiore informazione dopo le proteste del 2007 che sono andate praticamente in diretta mondiale? Che altro si può fare?
Non c’è dubbio che le proteste dello scorso anno sono state immortalate in tempo reale, bastava un cellulare per poter diventare giornalisti in quel momento e il mondo intero ha visto con i propri occhi i monaci uccisi e quelli che hanno rischiato la vita. Se si potessero far entrare milioni di cellulari in Birmania, pensando di far cadere il regime, ben venga. Ma il dato di fatto è che adesso si rischiano fino a dieci anni di prigione per un cellulare non registrato.
I giovani rischiano la galera anche solo se provano a fotografare il sole, simbolo della nascita della democrazia, e questo dimostra che è una situazione ai limiti della paranoia che potrebbe anche portare a breve al crollo del regime.

Allora c’è ancora speranza che torni la rivoluzione color zafferano…
Václav Havel diceva che durante i regimi totalitari la creatività è così fortemente oppressa che le persone si trovano a camminare in maniera inconscia per le strade, non hanno più contatto con quella che dovrebbe essere la resistenza che rischia di cadere nell’oblio. Lo stesso potrebbe accadere in Birmania, ma come dice Aung San Suu Kji la rivoluzione è allargare gli orizzonti, andare oltre i propri interessi personali e non avere paura.


pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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