Barbara Bonomi Romagnoli | Non ci sono parole per la gente del secolo scorso – Intervista a Zhang Jie
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Non ci sono parole per la gente del secolo scorso – Intervista a Zhang Jie

Vincitrice nel 1989 del premio letterario internazionale Malaparte e candidata al Nobel per la letteratura, Zhang Jie è tornata in Italia per presentare il suo ultimo romanzo [Senza Parole, Salani editore, 316 pagine, 16,80 euro] che nella traduzione italiana è uscito in un solo volume, mentre la versione cinese è di oltre 800mila caratteri.


In Cina esistono tre generi letterari [racconti brevi, medi e romanzi] e gli scrittori possono ambire a riconoscimenti per ognuno di essi, Zhang Jie è l’unica finora ad aver ottenuto premi per tutte le categorie e con “Senza parole” ha ricevuto per la seconda volta il prestigioso premio nazionale Mao Dun. Nata nel 1937 nel Liaoning, una delle province cinesi più industrializzate, dopo essersi laureata in Economia all’Università del Popolo, Zhang Jie ha lavorato come funzionaria statale nel settore industriale ed è ancora membro del Partito comunista cinese. Ha cominciato a scrivere a quarant’anni con racconti e romanzi che sono ormai famosi in tutto il mondo [L’amore è indimenticabile, Ali di Piombo e Mandarini Cinesi]. Zhang Jie dice che “non ci sono parole per la vita della gente del secolo scorso” ma su questo, sostiene il sinologo Francesco Sisci “scrive un romanzo impetuoso. È profondamente taoista, intimamente cinese, contraddittorio, contorto, ironico e vero”.

Ha impiegato diversi anni per scrivere questo romanzo, cosa l’ha impegnata di più: la costruzione della trama o la ricerca sulle parole?
Tutti e due gli aspetti mi hanno impegnata molto. La costruzione della trama ha richiesto molto lavoro perchè è molto complessa. Per reperire il materiale ho fatto molte ricerche, sono andata in diversi luoghi a intervistare molte persone. Anche la scelta delle parole è stata complicata perché in cinese l’ordine dei caratteri è molto importante, quindi anche su questo ho dovuto riflettere a lungo. Alcuni amici mi hanno detto che non era necessario fare così perché il lettore non percepisce la questione dell’ordine. Ma io conosco la differenza. Ti racconto una storia. In Cina c’era un falegname che realizzava delle cose molto raffinate, soprattutto decorava i singoli pezzi su tutti i lati. Un amico gli disse: “non c’è bisogno che per fare un tavolo ci impieghi tutto questo tempo o che decori anche l’interno, perché tanto l’interno non lo vedrà nessuno”. “Ma io sì”, ha risposto il falegname. Lo stesso vale per il mio romanzo e perciò ho dato così importanza all’ordine delle parole.

Questa spiega gli oltre 800mila caratteri presenti nel testo, come mai allora un titolo che a noi appare quasi paradossale “Senza parole”?
Perchè questo si riferisce al fatto che i dolori più grandi o le esperienze più intense non c’è lingua che possa esprimerle, non c’è codice che possa trasmetterle. Puoi scrivere tantissimo e ritenere di non aver mai scritto abbastanza perché tratti di qualcosa, l’esperienza umana, che è molto difficile da esprimere.

Rispetto all’esperienza che ha tentato di narrare, quanto c’è di biografico?
C’è l’esperienza di tutti in questo romanzo, qualcosa che parte da me ma che riguarda tante altre persone.

Si riferisce all’esperienza del popolo cinese o parla più in generale? Pensa che certi valori siano universali?
Ci sono due aspetti da considerare: il primo riguarda il fatto che molte persone leggendo questo romanzo possono ritrovarci la loro storia, il secondo riguarda dei sentimenti e delle percezioni universali, come la sofferenza che riguarda tutti gli esseri umani. In generale, penso che la vita degli umani sulla terra sia davvero difficile. L’esperienza umana è uguale per tutti nel sentire questa difficoltà della vita. Le emozioni e le difficoltà che sono indicibili non riguardano solo le questioni legate alla sussistenza come il cibo, ma anche quelle psicologiche provocate da danni morali.

Riguardo alla sofferenza, in questo romanzo c’è anche il tema della follia. Quando la protagonista Wu Wei impazzisce leggiamo che sua madre invece non era impazzita perché aveva delle responsabilità, come se Wu Wei, rispetto alla madre, si fosse potuta permettere di impazzire. Secondo lei qual è il ruolo della società rispetto alla follia di un singolo? E quali responsabilità ha la società?
Nel caso di Wu Wei il problema è che i suoi modi di vivere sono troppo contrastanti con la nostra società. Molto spesso la sofferenza deriva dal conflitto che c’è tra il pubblico e il privato, tra il personale e il pubblico. Immagino che anche in Italia c’è questo problema…

Si certo. A proposito di rapporto tra pubblico e privato, questa distinzione rimanda anche a quella tra personale e politico. Lei ha più volte rifiutato di essere definita femminista, nè vuole che la sua sia considerata letteratura femminile, eppure anche in “Senza parole” al centro della vicenda c’è una genealogia di donne con una spiccata personalità ed autonomia. Perché non si ritiene femminista?
Se scrivo di donne e delle loro sofferenze non significa che io sia femminista. Del femminismo non condivido che si imputi interamente agli uomini la diseguaglianza esistente tra uomini e donne. Penso che ci sono molte responsabilità anche delle donne. Molto spesso le donne sfruttano il potere degli uomini e in Cina sono molto soggiogate dagli uomini potenti. Non capisco perché si debbano appoggiare a loro invece di combattere per la loro autonomia.

Cosa dovrebbero fare?
Io non ho ricette, per quanto mi riguarda mi impegno. Faccio quello che devo fare al meglio, se tu fai le cose che dici le persone non possono non tenerne conto. Sembra facile da dire ma sappiamo che non è così.

Torniamo al libro. Non è un saggio nè una narrazione di tipo giornalistico, come mai ha sentito l’esigenza di fare così tante ricerche sul campo?
Penso che se sei uno scrittore serio non puoi non documentarti. Non puoi lasciare al lettore qualcosa che è frutto dell’irresponsabilità. Voglio essere sicura che quello che scrivo sia vero, anche i dettagli minuscoli li voglio verificare.

Possiamo definirlo un romanzo storico?
Sì assolutamente

Come mai è stata fatta una versione italiana del romanzo, quali sono le principali differenze con la versione originale?
Perché ci sono alcuni dettagli che riguardano ad esempio le guerre che racconto che perfino i cinesi non conoscono, perciò se li avessi lasciati nella versione italiana il lettore si sarebbe annoiato. Ho raccontato la storia di un secolo, è pieno di tante cose che neanche io conoscevo.

Perciò proprio gli aspetti storici del romanzo vengono penalizzati?
Sì anche perché erano troppo scollegati rispetto alla storia occidentale. Non ci sono omissioni di principio, solo la volontà di rendere la lettura più scorrevole. Altrimenti sarebbe stato ancora più lungo…

Quali sono gli scrittori occidentali che le piacciono di più, ci sono state delle influenze nella sua scrittura?
Credo che la patria della letteratura sia la Russia, apprezzo molto Tolstoj e Dostojevski. Ma anche gli autori francesi e inglesi classici. Gli italiani li conosco meno, mentre mi piace molto l’opera e la pittura italiana.

Quale influenza ha avuto la sua formazione di studi economici sull’attività di scrittrice?
Nella composizione del mio primo romanzo “Ali di Piombo” ha avuto certamente un influsso, perché ho potuto dall’interno capire e seguire lo sviluppo economico della Cina. Mi occupavo del settore dell’industria e quindi ho avuto modo di osservare cose che normalmente non si conoscono e questo mi ha particolarmente aiutata nello scrivere un romanzo in qualche modo politico.

Lei ha assistito a diversi momenti importanti nella storia del suo Paese, tra questi è stata coinvolta in prima persona nell’esperienza della rivoluzione culturale. Oggi che giudizio dà di quegli anni?
È stato un errore politico, non doveva accadere. Perché seguire l’unico pensiero di Mao ha fatto sì che si moltiplicassero i cattivi e i nemici, soprattutto c’è stato un accanimento nei confronti degli intellettuali.

Adesso in Cina si riconosce quell’errore? Si parla di quel periodo oppure no?
No, non se ne parla molto, i giovani poi non hanno nessuno interesse. Solo tra chi ha una certa età magari si dice qualcosa. La società attuale è edonista, non interessa il passato.

Ma è colpa solo dei giovani o c’è stata una mancata trasmissione da parte dei più anziani, di chi quel periodo lo ha vissuto?
I giovani credono che quel fatto non abbia un rapporto con loro. Solo gli ultracinquantenni possono tornare su quell’argomento. Tempo fa in un saggio avevo parlato della rivoluzione culturale e il titolo era “I semi da mangiare” che è stato completamente travisato perché pensavano si trattasse di un libro di cucina mentre io mi riferivo al fatto che in quel periodo le persone non avevano cibo e mangiavano le foglie degli alberi.

Secondo lei, in questo nuovo contesto cinese, quale può essere il ruolo sociale dello scrittore?
Non c’è qualcuno che ti dice cosa devi o non devi fare, e in fondo ognuno ha un compito diverso. Dipende anche dall’atteggiamento che hai nei confronti della vita. Conosco persone che lavorano come pazze non perché gli venga richiesto ma perché lo sentono come una loro esigenza e bisogno. Nel caso del lavoro intellettuale ci può essere un valore aggiunto rispetto all’educazione delle giovani generazioni ma questo non implica nulla perché anche da una stessa formazione possono poi crescere persone totalmente diverse. In tutto il mondo gli insegnanti dicono di fare una cosa e gli studenti fanno il contrario. 



pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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