Barbara Bonomi Romagnoli | Matrimoni combinati. Il ritorno in Italia
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Matrimoni combinati. Il ritorno in Italia

Il diritto di scegliere se, quando e con chi sposarsi è un diritto che a molte donne, anche poco più che bambine, in diverse parti del mondo, viene negato.

Dati Unicef 2012 dicono che nel 55% dei casi di matrimoni combinati, le donne non hanno incontrato il marito fino alla notte stessa delle nozze. In Asia del Sud, il 48% delle giovani è stata obbligata a sposarsi prima dei 18 anni; in Bangladesh, il 27,3% delle giovani è stata obbligata a sposarsi prima dei 15 anni; in Africa, il 42% delle giovani è stata obbligata a sposarsi prima dei 18 anni. Sono cifre che parlano da sole, rappresentano la più persistente disparità esistente al mondo, basata sulla sopraffazione degli uomini sulle donne, tenute al margine della vita economica, sociale e politica. Tutto questo non avviene solo in paesi lontani da noi, anche in Europa e qui in Italia il fenomeno esiste, anche se si tende a sottovalutarlo o a liquidarlo come qualcosa che riguarda altre culture. Invece, non è affare solo delle giovani donne immigrate, nate e cresciute nel nostro Paese, a cui viene spesso imposto un matrimonio che non desiderano e al quale non hanno gli strumenti e le risorse per opporsi, ma può capitare anche a donne italiane quando si tratta dei cosiddetti matrimoni riparatori di un presunto onore maschile.

 

Nel 2009, l’associazione Trama di Terre di Imola, che gestisce un centro interculturale di donne native e migranti e un centro antiviolenza, ha redatto una prima indagine sui matrimoni forzati in Emilia-Romagna, con la collaborazione di Daniela Danna dell’Università Bicocca di Milano. La ricerca, focalizzata sul territorio in cui opera Trama, ha riguardato non solo le ragazze che hanno subito matrimoni forzati, ma ha voluto comprendere anche la percezione del fenomeno da parte di chi opera nelle strutture di supporto, degli insegnanti nella scuola – dove spesso è possibile rilevare i primi campanelli d’allarme – e la rappresentazione mediatica che viene data, che a sua volta influenza anche lo sguardo delle comunità migranti.

 

Sono stati 33 i casi rilevati di matrimoni forzati in Emilia Romagna, solo in tre casi erano stati gli uomini a subire le nozze. Si legge nel report:

 

«In 20 casi il matrimonio forzato risulta avvenuto, in 11 casi i matrimoni sono stati celebrati all’estero. In 10 casi le ragazze coinvolte erano fidanzate con ragazzi non scelti dalla famiglia, circostanza che ha accelerato la celebrazione del matrimonio imposto dalle famiglie. Dalle interviste effettuate è emerso che a chiedere aiuto sono state soprattutto marocchine/i (12) pakistane/i (5) indiane/i (5). Un solo caso ha visto coinvolta una donna italiana. Il dato rispecchia la presenza delle comunità sul territorio: la percentuale di stranieri residenti nel territorio all’epoca della ricerca era pari al 15,6% per il Marocco, 3,1% per il Pakistan e 3% per l’India. La maggioranza dei matrimoni forzati che sono avvenuti (almeno 11 su un totale di 20) sono stati celebrati all’estero, nonostante la famiglia della sposa fosse residente in Italia: 5 in Marocco, 1 in India, 1 in Albania, 1 in Francia e 3 probabilmente in Pakistan. Tutti i casi che hanno riguardato i ragazzi hanno visto concludersi il matrimonio forzato e non si hanno ulteriori informazioni: i tre ragazzi avevano altre fidanzate che però hanno lasciato obbedendo all’imposizione della famiglia».

 

A partire da questa prima ricerca del 2011, Trama di Terre, in collaborazione con ActionAid Italia e con il contributo economico della Fondazione Vodafone, ha realizzato in questi ultimi tre anni un progetto sul Contrasto ai matrimoni forzati nella provincia di Bologna: agire sul locale con una prospettiva internazionale per iniziare a dare delle risposte concrete e chiedere alle istituzioni un impegno serio e duraturo.

 

Dal 2011 ad oggi i partner del progetto si sono impegnati a fornire servizi di supporto alle donne che hanno subìto matrimoni forzati, una struttura è stata messa loro a disposizione e sono state realizzate attività di formazione e sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza e alle istituzioni.

 

Non è stato facile, come racconta Tiziana Dal Pra, presidente di Trama, perché nell’avviare una iniziativa simile il primo ostacolo è stata «la non percezione del tema da parte in primis della politica, anche quella delle donne. Questa assenza di attenzione o dibattito, ha prodotto da parte dei servizi sociali, delle forze dell’ordine e della magistratura una lettura familistica e relativista che ha tentato di tradurre il problema in chiave di affari di famiglia e di culture diverse: un mix pericolosissimo. Ma chi lavora sul campo, per i diritti delle donne e delle bambine, sa che il problema esiste e non è più così sommerso, bisognava cominciare a ragionare e intervenire al di là delle varie e diverse percezioni. Credo avessimo visto giusto».

 

Soprattutto, non ci si può fermare alla provincia, perché è solo in un’ ottica globale che si può trasformare una cultura di sopraffazione in una cultura dei diritti, e a tal proposito Rossana Scaricabarozzi di ActionAid chiede «all’Italia e agli altri paesi riuniti in sede delle Nazioni Unite di discutere il prima possibile di come inserire impegni specifici a contrasto dei matrimoni precoci e forzati nella nuova agenda globale per lo sviluppo dopo la scadenza degli Obiettivi del Millennio nel 2015».

 

Fra gli impegni concreti del progetto, c’è stata l’apertura e la gestione di una casa-rifugio per giovani donne straniere che scelgono di sottrarsi all’imposizione di un matrimonio. Le prime dieci ragazze accolte nei primi due anni di lavoro hanno differenti livelli di istruzione; quattro sono nate in Pakistan, due in India, una in Bangladesh, una in Sri Lanka, una in Albania e una in Tunisia. L’età varia dai 17 ai 24 anni, quasi tutte sono giunte in Italia nel periodo della preadolescenza. Due di loro hanno partorito mentre erano ospiti, un’altra aveva una bambina di 3 anni. «Molte ragazze provengono da famiglie musulmane praticanti, da Paesi dove il matrimonio è quasi sempre un’istituzione patriarcale basata sul vincolo di sangue: il pretendente ideale per organizzare un matrimonio combinato rimane ancora il cugino, che ha il diritto prioritario, rispetto a ogni altro uomo – spiegano le operatrici di Trama di Terre– ma è opportuno chiarire che presso alcune comunità, in particolare quelle asiatiche, il matrimonio è ancora una istituzione essenziale per delimitare i confini “legittimi” della sessualità e rappresenta un ideale del percorso di vita, che viene pianificato sin dall’infanzia».

 

L’intreccio affettivo e culturale pesa fortemente sulle donne coinvolte, per questo «non serve l’introduzione del reato di matrimonio forzato – afferma Barbara Spinelli, avvocata e consulente legale del Centro Antiviolenza di Trama di Terre – ma è necessario colmare alcuni vuoti normativi, ad esempio il riconoscimento del permesso di soggiorno anche per le migranti che subiscono matrimoni forzati, così come è stato ottenuto per chi subisce violenza. Deve rimanere un fatto slegato dal percorso penale, le maggiorenni non vogliono denunciare le famiglie perché non solo hanno paura ma perché sarebbe poi difficile recuperare rapporti e relazioni: un processo penale inibisce un percorso di ricostruzione e rende più difficile l’emersione di queste storie. Non è un caso che gli esiti estremi di alcune di queste storie sono stati dei femminicidi, basti pensare a Hina o Sanaa».

 

Serve dunque formare le operatrici e gli operatori dei servizi, fare prevenzione nelle scuole, creare luoghi dove queste giovani donne possano sentirsi accolte e comprese.

 

Per questo sono state realizzate delle Linee Guida – le prime in Italia e dal significativo titolo in tre lingue Onore e destino/Izzat e Kismet/Honour and Fate – per fornire gli strumenti culturali e tecnici adatti a chi opera in questi ambiti, far in modo che le esperienze sul campo diventino delle best practices a livello internazionale.

 

Non si può prendere tempo, è necessario agire subito, per questo Dal Pra, Spinelli e gli altri promotori del progetto chiedono a viva voce l’inserimento dei matrimoni forzati nel piano nazionale antiviolenza così da avere al più presto una mappatura con dati statistici su tutto il territorio italiano.

 

Differente è invece la situazione nel resto dell’Europa, come raccontano le relatrici straniere intervenute al convegno conclusivo del progetto. In Gran Bretagna le critiche mosse alla criminalizzazione dei matrimoni forzati dalle associazioni e dai professionisti del settore ha determinato la scelta di potenziare il quadro normativo già esistente, attraverso l’adozione del «Forced Marriage (Civil Protection) Act» che introduce la misura civilistica dell’ordine di protezione in favore di chi rischia di subire un matrimonio forzato, o l’abbia già subito, sia in Gran Bretagna che all’estero. Il giudice, mediante questo ordine di protezione, può ingiungere una gamma indefinita di comportamenti (come la consegna del passaporto della donna o l’indicazione del luogo dove è trattenuta all’estero). A ottenere queste nuove misure, oltre la stesura di linee-guida sui matrimoni forzati per diverse categorie professionali, è stata, fra le altre, l’associazione Southall Black Sisters attiva a Londra dal 1979. Le attiviste di SBS hanno inoltre contribuito alla creazione dell’Associazione dei Commissari di polizia e Procuratori di Stato (Cps) a sostegno del “servizio d’azione legale per l’elaborazione di politiche in materia di violenza domestica, matrimonio forzato e violenza d’onore” e della strategia complessiva contro la violenza nei confronti di donne e bambine adottata a livello governativo.

 

A Berlino è invece attiva l’ong Papatya che dal 1986 gestisce un centro anonimo d’emergenza e di prima accoglienza che offre protezione e soccorso a bambine e giovani donne (dai 13 ai 21 anni) fuggite di casa in seguito a conflitti familiari, garantendo la presa in carico immediata e un servizio d’assistenza 24 ore su 24 presso una struttura a indirizzo segreto; a prendersi cura delle ragazze è un’équipe di operatrici sociali turche, curde e tedesche, coadiuvate da una psicologa. Papatya è in grado di ospitare fino a 8 persone per volta, e ogni anno ne arrivano una sessantina (1700 circa in totale), provenienti da tutto il paese.

 

Nel 2011 la Germania ha introdotto modifiche legislative in materia di matrimonio forzato, trasformandolo in reato penale. I diritti delle bambine e delle ragazze nate in Germania sono stati rafforzati, mentre indebolita è risultata la posizione delle donne immigrate col matrimonio.

 

Sono critiche anche le attiviste di Papatya su questa scelta: «Il matrimonio forzato era già prima illegale, nella forma di coercizione aggravata, ma la nuova legge ne chiarisce meglio la natura di reato a sé. Noi pensiamo che le modifiche al codice penale non fossero la prima priorità per le potenziali vittime – afferma Corinna Ter – Nedden – Abbiamo più volte detto che le modifiche legislative sono assai meno importanti rispetto alla creazione di centri antiviolenza e all’attivazione di misure efficaci di protezione e sostegno alle donne. Ma emendare una legge è meno costoso – comunque meno che finanziare case protette efficienti…».

Pubblicato su Corriere della Sera – 27ora

 



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