Barbara Bonomi Romagnoli | Madre piccola, voce migrante – intervista a Cristina Ali Farah
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Madre piccola, voce migrante – intervista a Cristina Ali Farah

“Barni mia, io voglio che mio figlio nasca qui, terra mia madre di cui conosco risvolti della memoria, segreti della parola.” Così Domenica Axad dice all’amata cugina Barni, che ha finalmente ritrovato dopo un lungo e doloroso distacco. Le due donne sono cresciute a Mogadiscio, la guerra civile e altre vicende le hanno separate e poi si sono rincontrare a Roma.

Dove Barni da anni fa l’ostetrica mentre Domenica è alla ricerca di fili nella matassa della diaspora somala. Con la cugina ritrovata affronta la maternità e suo figlio si chiamerà come il nonno, Taariikh –  che vuol dire Storia – mentre Barni sarà la sua habaryar, madre piccola. Questa in grandi linee la trama del primo romanzo (Madre piccola, Frassinelli editore, 2007) di Cristina Ali Farah, nata a Verona nel 1973 da padre somalo e da madre italiana, e vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991 quando è stata poi costretta a fuggire, con il suo primo figlio, a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Tra le fondatrici della rivista di letteratura della migrazione El-Ghibli, collabora da anni con periodici e riviste e svolge attività di mediazione interculturale.


Sei di origine italo-somalo e sei vissuta per diversi anni in Somalia, qual è il tuo attuale rapporto con l’Africa?

Non sono più tornata a Mogadiscio. Non dico di non avere nostalgia per i luoghi, ma la perdita più grande, l’assenza che nel libro cerco di raccontare è quella dei legami, le coordinate affettive grazie alle quali ci orientiamo nella vita. Il mio rapporto con l’Africa resta allora quello delle persone che cerco e incontro in giro per il mondo, nel tentativo di replicare tante micro-case nelle quali ritrovarci.


Che rapporto c’è tra la scrittura, l’esilio e il non poter tornare nella propria terra?
Immagino l’esilio come una condizione in cui si vive separati dal proprio contesto originale nonostante questo continui ad esistere in nostra assenza. Forse nel mio caso si tratta solo di un ritorno-impossibile: a Mogadiscio la vita continua, ma non ha niente a che vedere con ciò che conoscevo. La scrittura sicuramente permette di tracciare una mappa, di riempire il vuoto lasciato dal ritorno impossibile: come dice una delle protagoniste del libro, alla voce narrante spetta il compito arduo di restituire un senso a un discorso altrimenti ingarbugliato.

 

Il tuo primo romanzo è un intreccio di voci protagoniste, da dove nasce questa scelta narrativa?
Ho iniziato a scrivere attraverso la raccolta di storie orali: registravo le voci e le trascrivevo così, nude e senza orpelli, poi ci lavoravo, ascoltando il ritmo, il flusso del discorso. Ciò che mi interessa di più è la prospettiva soggettiva della storia e di come questa prospettiva si modifica a seconda dell’interlocutore esterno. I protagonisti del libro parlano ogni volta con un interlocutore diverso, naturalmente a seconda che quest’ultimo sia più o meno intimo, la voce narrante utilizza codici differenti.


Anche tu hai avuto una habaryar, una madre piccola?
Non in senso stretto: habaryar è la zia da parte di madre e siccome mia madre è italiana non ho mai avuto occasione di chiamare una zia habaryar. Quand’ero piccola assieme a noi viveva una eedo, una zia paterna poco più che adolescente alla quale ero molto legata e che mi ha insegnato le prime parole di somalo.

Le donne giocano un ruolo molto forte nel tuo racconto, pensi ci sia una specificità di genere nella scrittura?
Credo di sì, ma per un motivo molto semplice: ognuno scrive di ciò che conosce, in termini generali è naturale che la scrittura femminile, così come lo è l’approccio al mondo, sia diversa da quella maschile.

Racconti storie di singoli che si intrecciano con quelle del tuo popolo, il tuo libro è anche la storia della colonizzazione: in che modo le parole possono aprire al dialogo e lenire il dolore?
Ecco, per esempio io non so quale sia il mio popolo, in senso stretto dovrebbe esserlo sia quello somalo che quello italiano. Mio padre ha conosciuto mia madre in Italia dove è venuto per aver vinto una borsa di studio, tutto questo non sarebbe successo senza una storia pregressa di sopraffazione. Come dicono più volte i personaggi del romanzo siamo frutto di ciò che è stato, dobbiamo lavorare insieme per capire il passato: solo in questo modo riusciremo a guarire le ferite presenti.


Quest’anno altre autrici italo-africane hanno esordito con un romanzo, in comune avete una scrittura che nasce dalla carne e dal corpo. Hai rapporti con le altre donne che come te vivono in Italia il loro essere migranti attraverso la scrittura, penso a Gabriella Ghermandi, Valentina Acava Mmaka ma anche Igiaba Scego…
Posso dire che con Gabriella Ghermandi e Igiaba Scego sono cresciuta insieme, il lavoro di rete e di appoggio reciproco ci ha dato molta forza e sicuramente è anche grazie a questo che abbiamo raggiunto alcuni risultati.


Preferisci scrivere o lavorare come mediatrice culturale? Cosa ti piace di più della mediazione interculturale?
La scrittura esige molta passione e pazienza, è totalizzante. Della mediazione interculturale ciò che più mi interessa è il linguaggio, le cornici comunicative e il loro legame con le differenti culture.


Tra i progetti futuri?
Sto leggendo e scrivendo molti versi ultimamente. Sono spesso in viaggio per la promozione del libro, così in treno, in aereo, nelle stazioni e negli aeroporti, scrivere e riscrivere la stessa strofa è qualcosa che mi ricongiunge con la mia passione iniziale che era soprattutto per la poesia. Naturalmente il sogno più a lungo termine è quello di scrivere un secondo romanzo.


pubblicato su Aprile mensile



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