Barbara Bonomi Romagnoli | Lavoro, legge 194, autodeterminazione. Ripartire dalle origini della violenza. I movimenti verso la Giornata Internazionale
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Lavoro, legge 194, autodeterminazione. Ripartire dalle origini della violenza. I movimenti verso la Giornata Internazionale

Il punto resta sempre lo stesso, da anni, decenni oramai. A corrente alternata l’opinione pubblica si indigna e si commuove per un femminicidio, uno stupro, una violenza reiterata e al contempo è ferma alla stessa lettura di quel che accade: la donna in questione se l’è cercata, aveva comportamenti compiacenti, mentre lui è stato colto da una folle sregolatezza magari per gelosia. L’attenzione mediatica, tendenzialmente morbosa e spettacolarizzante, punta i riflettori sulla “violenza” ma senza uscire, se non in rare eccezioni, dallo stereotipo del vittimismo che sembra essere una delle condizioni sine qua non che madre natura abbia concesso alle femmine. E se provassimo a vedere le cose da un altro punto di vista?

Senza parità non si sconfigge la violenza

«Se cominciassimo a dire: la donna che subisce maltrattamenti o discriminazione è una persona offesa da un reato, non è una vittima – sostiene Simona Ammerata della Casa delle donne di Roma Lucha y Siesta – Forse la vittima è proprio l’uomo che non riesce ad accettare la libertà della sua compagna, figlia, amante, moglie. È vittima di un sistema politico e sociale che lo ha ingabbiato in un pessimo stereotipo e non ha la forza per uscirne». È decisamente un buon punto di partenza per far ripartire una nuova mobilitazione delle donne italiane, alle prese con centri antiviolenza senza fondi o che vengono chiusi, servizi pubblici quasi inesistenti, pillola anticoncezionale a proprio carico, obiettori di coscienza sulla 194 e sanzioni per l’aborto clandestino (su quest’ultima vicenda è attivo da mesi il gruppo #ObiettiamoLaSanzione). «È il momento di essere unite e ambiziose, di mettere insieme le nostre intelligenze e competenze. Ogni giorno facciamo i conti con violenze e abusi in casa, in strada, nei posti di lavoro. La violenza è sempre una questione di rapporti di forza, sta a noi ribaltarli a partire dalla nostra unione e condivisione»: così scrivono nell’appello le promotrici di un percorso che si è avviato la scorsa estate da alcune assemblee cittadine romane e che ha subito raccolto adesioni da tutta Italia, per ribadire che la vita di una donna vale quanto quella di un uomo, che senza parità sostanziale fra i sessi non si sconfigge nessuna forma di violenza.

Verso il 26 novembre

L’8 ottobre c’è l’assemblea nazionale aperta e pubblica (Facoltà di Psicologia Università La Sapienza, Via dei Marsi 78, dalle 10.30 in poi) per arrivare ad una grande manifestazione sabato 26 novembre sempre a Roma, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, con lo slogan Non una di meno, perché siamo stanche di contare le morti e vorremmo contarci in tante da vive. Due tappe di un processo più grande, per certi aspetti già avviato con esperienze simili negli anni scorsi (il movimento nazionale di Sommosse nel 2007, la Convenzione No More nel 2011/12 e lo Sciopero delle donne nel 2013) per tornare a riaffermare l’autodeterminazione delle donne su lavoro, salute, affettività, diritti, spazi sociali e politici. Ma anche per ricordare che senza parità e uguaglianza non si sconfigge la violenza, come sostiene, fra l’altro, Luciana Bova Vespro della Collettiva Autonomia Reggio Calabria: «Noi pensiamo che le cause della violenza le conosciamo già (patriarcato, capitalismo, eterosessismo, razzismo). Dovremmo prendere esempio dalle donne di Varsavia, riempire le strade di Roma, certo lì c’è una tradizione sindacale diversa, da noi la Cgil ha paura dello sciopero generale e probabilmente molte donne italiane si sono normalizzate e integrate ad un sistema valoriale che in realtà non le include. Dal nostro punto di osservazione a Sud pensiamo che il Governo, sia nazionale che locale, ha già tutti gli strumenti per intervenire, sono anni che gli proponiamo pratiche e metodologie. Evidentemente non vogliono agire e allora dobbiamo farlo noi, discutendo e dibattendo perché è importante dare spazio e visibilità ai territori ma soprattutto alle relazioni: noi non siamo un centro antiviolenza eppure ci chiamano per gestire donne in difficoltà perché negli anni abbiamo costruito una rete di riferimenti e di pratiche, l’avvocata competente o il carabiniere capace di accogliere la denuncia».

Autoderminazione: di nuovo punto di partenza

A dare nuovamente slancio al protagonismo di queste pratiche femministe diffuse sono state la rete romana IoDecido, Dire – Rete dei Centri antiviolenza italiani e l’Udi che ha proclamato un intero anno «di lotta politica perché non si tratta solo di stilare un elenco di legittime rivendicazioni ma di denunciare e fermare l’erosione dei diritti di cittadinanza delle donne che riduce tutte e tutti alla sudditanza – afferma Rosangela Pesenti, presidente degli Archivi Udi: «L’attacco all’autonomia e all’autodeterminazione delle donne è passato attraverso le leggi sul lavoro e sulle pensioni, una politica del territorio che rende difficile l’accesso alla casa, il boicottaggio delle leggi conquistate negli anni ’70, la riduzione del contrasto alla violenza a problema di ordine pubblico, la mortificazione della società civile, l’aziendalizzazione e privatizzazione dei lavori della riproduzione sociale (scuola sanità servizi), la manipolazione dell’immagine femminile, mette in discussione i fondamenti stessi del patto sociale che le donne hanno conquistato generazione dopo generazione. E chiunque resta in silenzio è complice: ritrovare e rendere visibili parole collettive significa agire».

Ricostituire i movimenti

Agire, anche per ricostruire un realtà oggettivamente un po’ frammentata come quella dei movimenti delle donne italiane: «La manifestazione ha due obiettivi a breve e medio termine – spiega Sara Picchi di Una Stanza tutta per sé che fa parte della rete IoDecido – perché la necessità imminente è mettere in connessione i collettivi di base con i centri antiviolenza (Cav), soprattutto riconoscersi e contarsi alla luce di un momento di forte contraddizione: da una parte l’aumento, stando ai dati Istat, dei Cav e dall’altra la scure dei tagli e dei rientri di bilancio. In prospettiva, invece, vorremmo scrivere un Piano Femminista contro la violenza di genere, in una ottica non emergenziale come andiamo ripetendo da anni, ma in maniera strutturale, per incorniciare e fissare le pratiche che il movimento delle donne ha messo in piedi (anche faticosamente) in questi anni. Quello che denunciamo come femministe è la presenza, ultimamente, di molte associazioni che accolgono le donne senza avere una storia o una pratica consolidata in merito».

Superare l’asse securitario-sanitario

É dunque necessario riconoscere una volta per tutte i saperi che esistono ed hanno permesso finora di lavorare anche senza il sostegno delle istituzioni, ricorda Natascia de Matteis delCentro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino, città dove fra l’altro è attiva da marzo 2015 l’Assemblea Antisessista che ha aderito e sarà a Roma anche «per ragionare sulle violenze di genere negli spazi antagonisti, perché il nostro lavoro è orientato alla sensibilizzazione e prevenzione anche su questo e per allargare la partecipazione abbiamo avviato un percorso di avvicinamento alle giornate romane con una serie di assemblee pubbliche capaci di implementare una rete territoriale di gruppi, collettivi, singol* che possano essere presenti alle giornate romane di novembre». Dalla Sardegna arriverà Luisanna Porcu, responsabile diOnda Rosa, Centro antiviolenza di Nuoro che fa parte della rete Dire: «Persiste un notevole scarto tra le volontà dichiarate dal nostro Governo e le azioni poi promosse, tra interventi enunciati con enfasi e la loro discutibile e spesso inesistente applicazione. I provvedimenti proposti sono molto lontani da quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul, sono orientati da una impostazione securitaria per la quale la violenza contro le donne, anche in ambito domestico, viene definita ed affrontata come una questione di sicurezza e di ordine pubblico: nel nostro paese si parla di “cura” e non di autodeterminazione. Sono nauseata dal sentire che donne soffrono di “dipendenza affettiva”, quindi di una dipendenza senza sostanza. Da cosa saremo dipendenti? Dalla violenza? Questo approccio che si sposta sull’asse securitario-sanitario è molto pericoloso. Ci dipinge come incapaci e malate».

Femminismo migrante

Non solo, aggiungono le donne di Trama di Terre di Imola: «Questo percorso nazionale sottolinea ancora una volta che la violenza maschile sulle donne non ha colore, religione, né cultura ma è trasversale a tutte le società patriarcali perché serve a mantenere uno squilibrio di potere tra maschi e femmine. Tuttavia, sappiamo che vi sono forme di violenza importate con la migrazione, che ricadono principalmente sulla pelle delle cittadine migranti, quando non sono messe nella condizione di far valere i loro diritti. È arrivato il momento di organizzare un “femminismo migrante” che sappia tenere conto delle differenze di classe e di status che influenzano profondamente le possibilità di autodeterminazione delle donne». «A Firenze ci siamo riunite, donne di realtà diversa, per capire come ci piacerebbe che fosse la manifestazione del 26 e perché ne sentiamo tutte il bisogno. Le prime parole sono state: la misura è colma e basta chiacchere sulla violenza. Nessuna di noi vuole che il 26 sia la vetrina per le “solite note” della politica, sempre pronte a farsi fotografare in prima fila ma poi non fanno nulla nei luoghi istituzionali – racconta Lea Fiorentini Pietrograndi dell’assemblea fiorentina – Questo non vuol dire escludere nessuna a priori, ma vuol dire non prestarsi a chi utilizza la violenza per avere visibilità. La misura è colma anche perché nella scuola non viene fatta nessuna formazione di educazione sessuale e all’affettività: una insegnante ci dice che ogni hanno nella sua scuola fanno la maturità 5-8 ragazze incinte, a volte in situazioni dubbie e i presidi non fanno nulla».

La politica ci ascolta?

Anche questa è discriminazione e disparità di genere che cresce con le nuove generazioni e non c’è dubbio che le donne che stanno per arrivare a Roma hanno idee chiare e proposte concrete: chissà se la ministra Boschi che ha appena avviato i tavoli di consultazione sulla violenza sarà capace di ascoltarle fino in fondo. Anche nel loro ribadire un chiaro e forte No a politiche che finora hanno ignorato le loro illuminanti pratiche.

Pubblicato su Corriere della Sera/27Ora



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