Barbara Bonomi Romagnoli | La vita delle mamme italiane, tra precarietà e ironia. Intervista a Elisabetta Ambrosi
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La vita delle mamme italiane, tra precarietà e ironia. Intervista a Elisabetta Ambrosi

«Questo libro è fatto di voci, di amiche e conoscenti, ma anche di donne con cui sono venuta in contatto casualmente attraverso il mio blog, che con generosità hanno risposto a domande come queste: “Quante volte a settimana hai la signora delle pulizie? Chi sparecchia? Quanto guadagni? Come vorresti cambiare il tuo lavoro? Hai avuto i figli che desideravi o ne vorresti altri? Sei libera? Sei felice?”»

Sono tante, tantissime le voci che si rincorrono nel nuovo libro Guerriere [Chiare lettere, 2014] di Elisabetta Ambrosi, giornalista de Il fatto quotidiano e Vanity Fair, che su twitter si presenta così: «Dna liberale. Molta rabbia, camuffata con ironia».

Ed è proprio l’autoironia – che mitiga la vena tragica dell’autrice – la cifra scelta per raccontare un tema che sta molto a cuore ad Ambrosi: come vivono le madri italiane alle prese con precarietà, crisi, mancanza di impiego, servizi e anche di diritti. Anche lei mamma equilibrista fra casa e lavoro (che svolge per lo più fra le mura domestiche), Ambrosi ha scelto la via di mezzo: non completamente cronista distaccata né autrice autobiografica egocentrica. Le storie delle donne protagoniste del libro scorrono fra le sue invettive – supportate da dati e interviste – contro tutto quello che non va, soprattutto a Roma, e gli interventi della sua amica Silvia che, da Bologna, le ricorda che forse c’è bisogno di non piangersi troppo addosso e assumersi un po’ di responsabilità in più, anche nel sottrarsi alle pressioni esterne che vogliono le mamme sempre efficienti e multitasking.

I dialoghi fra l’autrice e le differenti donne – che incontra, intervista, sollecita -restituiscono un testo vivo che si legge in velocità e in molte si rispecchieranno, non solo nelle lamentele per tutto quello che non funziona ma anche per i tanti “rimedi” trovati per sopravvivere in un paese dove le madri hanno più di una gatta da pelare.

Ma non c’è dubbio, come dice Lia Celi nella sua arguta e divertente prefazione: le mamme italiane dovrebbero arrabbiarsi un po’ di più, battere i pugni sul tavolo, anche col rischio di assomigliare alle femministe brutte e cattive degli anni Settanta e non continuare a tenersi «l’uomo puzzolente che non spazza»arrivando magari a mettersi «la scopa nel posto indicato da Elio in Servi della gleba».

E poiché la metafora che percorre tutto il libro è propria quella dell’agóne da combattimento, la mia intervista ad Ambrosi comincia proprio da lì.

Puoi spiegare il perché della scelta del termine “Guerriere” e del ricorrere del concetto di “guerra”? Non si riesce proprio ad uscire da un immaginario che più maschilista non si può, non riusciamo a nominarci in maniera diversa?
Verissimo, ne avevo parlato anche con la mia psicoanalista che mi aveva fatto la stessa obiezione, ma giornalisticamente parlando è stato impossibile trovare un termine che fosse di facile comprensione, del tipo le resilienti, etc. Inizialmente era “le combattenti”, ma non cambiava molto. Sì forse c’è bisogno di inventare una nuova parola e, insieme, un nuovo immaginario.

La tua tesi è che ci sia una guerra fra donne e Stato (dagli asili ai marciapiedi), ma lo Stato non è una entità astratta: qual è la responsabilità delle donne? Perché non si ribellano?
Vero anche questo. Forse le mamme non si ribellano, banalmente, perché sono troppo stanche e schiacciate. Effettivamente le giornate delle madri sono pesantissime, e lo spazio per la “vita pubblica” è pochissimo. Forse c’è anche molta rassegnazione rispetto ai diritti: ho amiche che neanche fanno la domanda per l’asilo nido, “tanto non mi prendono”. E poi le donne ancora si sentono molto colpevoli e imperfette rispetto al non farcela, all’affanno. Pensano di sbagliare, di non saper conciliare. Dall’interno è difficile rendersi conto che, messe in un altro contesto meno ostile, anche il loro conflitto sarebbe diverso, forse persino si dissolverebbe.

A proposito di conciliare: perché deve conciliare solo lei?
L’ansia di fare tutto c’è, ma molto meno del passato, anche perché le donne oggi lavorano e tantissimo. Il vero problema, forse, è che ancora nella coppia non c’è vera parità. E su questo sicuramente sono responsabili le donne. Dovrebbero essere inflessibili nell’imporre subito un rapporto paritario, fin dal giorno della nascita, simmetrico, assolutamente “reversibile”. Non credo al mito della simbiosi materna, un bimbo sta bene con tutti. Se ci fosse vera condivisione, tutto cambierebbe. Non aiuta la persistenza di stereotipi ancora forti come quello che dice che la mamma è fondamentale nei primi mesi di vita etc, sono datati e non veri. Se ad esempio, una madre ha un lavoro precario e un padre no, si tende ancora a proteggere il rapporto di lavoro del padre, insomma quello più forte e che dà più reddito. Così però le donne restano al palo. Non ci si rende conto che le ineguaglianze poste nei primissimi mesi, anzi nei primissimi giorni, poi restano per sempre, determinando in maniera negativa tutta la vita lavorativa della madre. Su questo le donne devono stare attentissime, anche perché oggi ci si separa molto più che in passato, e il rischio è di restare sole e senza risorse economiche.

Quanto è indotto il desiderio di fare figli? Nel libro usi molto il verbo “dovere” , quasi mai “un vorrei”, un “mi piacerebbe” ma sempre “devo fare, devo comprare”: sembra quasi che si debba farlo per forza questo pargolo… che fine fa il desiderio?
Forse hai ragione anche su questo. Ma non credo che il desiderio di fare figli sia indotto. Anzi, per quanto posso osservare, c’è più che altro un desiderio messo a tacere per impossibilità. Perché altrimenti non si spiegherebbe come il numero dei figli cambi a seconda dei paesi e dei contratti di lavoro. Penso che il desiderio di maternità, anche se se ne parla tantissimo, sia in Italia una sorta di “rimosso”, lo dico sul serio. Si arriva alla soglia dei quaranta per scoprirlo, con tutte le difficoltà che seguono. Al di là dei linguaggio utilizzato, riscontro un enorme desiderio di figli, che però quasi mai corrispondono al numero reale.

Torna molto spesso “il senso di colpa”, credo di averlo cerchiato almeno dieci volte: ad esempio, senso di colpa per avere un figlio unico. Non risponde anche questo alle aspettative di una società familista e allo stereotipo della donna madre?
Forse sono fatta io così e mi dai un buon suggerimento analitico su di me. Non credo che il desiderio sia uguale per tutte le donne o presente in tutte, ma che ci sia un desiderio di figli, maggiore dei figli reali, sì. Se davvero fosse uno stereotipo familista, come mai una donna su quattro non fa figli e tantissime ne fanno solo uno? Ci sono le donne libere e consapevoli in mezzo, certo, ma ce ne sono tantissime che non lo fanno per impossibilità materiali. Economiche. Pratiche. Che sono enormi.

Quali sono le tre misure che, secondo te, potrebbero essere adottate in tempi rapidi per migliorare la vita delle madri?
Un piano straordinario di asili nido, compresa una legge che obblighi comuni ad avere una cifra di copertura: è inammissibile che non ci sia. Questa è la prima cosa, ovviamente anche lavorando sull’ampliamento dell’orario scolastico, specie nei lunghissimi mesi estivi che schiacciano le famiglie. Secondo: introdurre ammortizzatori sociali per tutti i lavori, veri, solidi, per cui nessun lavoratore resti senza sussidi o tutele tra un lavoro e l’altro. Personalmente non sono favorevole a misure a favore in particolare per le donne, ma se le donne avessero certezza di reddito allora anche la maternità sarebbe meno conflittuale. Terzo, bisognerebbe che la società stessa si facesse carico della cura dei bambini, conoscendone i loro bisogni: ci vorrebbero agevolazioni per le palestre e le piscine, che costano tantissime, e per tutte le attività ludiche, che sono inaccessibili per i costi. Poi ci vorrebbe un cambiamento culturale profondo, di cui siano espressione alcune misure, come ad esempio il congedo di paternità. Allucinante e offensivo che oggi sia di un solo giorno, meglio toglierlo.

Di femminismo parla Lia Celi nella intro quando dice:
«In nessun paese come in Italia il femminismo è stato così deriso, insultato, demonizzato, perfino da chi ne ha tratto benefici. Giovani donne che godono dei diritti conquistati dalle battaglie femministe delle loro madri (divorzio, aborto, contraccezione) sostengono di volere la parità ma, si affrettano a precisare, “non sono femminista».

Cos’è per te il femminismo? Perché nessuna, forse solo una, delle tue donne nomina il femminismo?
Penso che per la generazione delle donne che ho intervistato femminismo sia una parola difficile da usare. Ma è solo un problema linguistico: oggi le donne esprimono il loro desiderio di emancipazione utilizzando altri vocaboli, non mi sembra scandaloso. Il problema non è la parola che usiamo, ma gli obiettivi che ci diamo. Se femminismo divide, usiamo un altra parola. Forse le donne di oggi sembrano meno coscienti dei loro diritti, come più rassegnate, meno partecipi della vita pubblica e politica. Ma il reflusso riguarda tutta la società, mi sembra, non solo loro. Ci vorrebbe un nuovo femminismo? Sicuramente sì. Ma non sono sicura che sia saggio utilizzare la stessa parola.

Infine: nel tuo libro ci sono madri single, sposate, divorziate, con uno o più figli, con uno o più amanti, ma sempre coppie etero: non credi che anche per le coppie omosessuali ci siano gli stessi problemi?
Lo avevo proposto all’editore, ma poi abbiamo pensato che non doveva essere per forza un campionario completo di tutte le situazioni. Mi spiace che manchi perché per me si tratta di un aspetto fondamentale, specie nel paese dei non diritti. Magari nel prossimo libro!



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