Barbara Bonomi Romagnoli | Il pensiero dell’alveare
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Il pensiero dell’alveare

“Ai passanti si presentava una scena palesemente grottesca: vedevano un uomo che si chinava verso terra e osservava rapito i fiori per poi scattare in piedi e mettersi a correre come se fosse impazzito, quindi si fermava ancora un po’ e di nuovo si rimetteva a correre. Un signore a passeggio si è avvicinato a mia moglie molto preoccupato: “Stia attenta, signora, c’è un pazzo nel bosco che continua a saltare in mezzo ai fiori”. E mia moglie gli ha risposto: “Non si preoccupi. È mio marito. Forse un po’ matto lo è, ma non è pericoloso”.

È uno dei tanti aneddoti che fanno sorridere leggendo il volume L’intelligenza delle api. Cosa possiamo imparare da loro, del neurobiologo tedesco Randolf Menzel, allievo dello zoologo Martin Lindauer, a sua volta allievo del premio Nobel Karl von Frisch, a testimoniare il legame di alcune delle voci più autorevoli in campo apistico. Dopo decenni di ricerche ed esperimenti, aggiornati anche con l’uso delle nuove tecnologie, Menzel ha tradotto la sua passione scientifica con l’aiuto del filosofo Matthias Eckoldt e ci consegna un testo denso e articolato pur nell’intento divulgativo, in cui veniamo accompagnati passo passo a capire come funziona un cervello grande appena un millimetro e composto di circa un milione di cellule nervose (contro i circa 86 miliardi di neuroni presenti nel cervello umano), e che fa dire a Menzel che “l’architettura del suo cervello fa sì che l’ape sia più intelligente di qualsiasi computer”. Non solo, pur non esistendo un’unità di misura dell’intelligenza, si può affermare che una piccola insetta come l’ape sia più intelligente di un elefante: prendendo infatti come metro la capacità di apprendimento, e quindi la velocità con cui possono essere elaborate e richiamate le informazioni, la neuroscienza ha dimostrato che “quanto più vicini sono fra loro i neuroni, tanto più elevata è la velocità di comunicazione tra di essi. Perciò un cervello piccolo come quello delle api, nonostante il numero relativamente ridotto di neuroni, può arrivare a prestazioni di intelligenza elevate. Nel cervello dell’elefante invece i neuroni sono molto numerosi, ma abbastanza distanziati fra loro, perciò le comunicazioni fra queste cellule non sono particolarmente rapide”.

Ancor più interessante è l’approccio scelto da Menzel: senza negare quel che sempre viene messo in luce dell’alveare, ovvero l’essere un “superorganismo” che pensa collettivamente, sceglie di rendere protagonista la singola ape, anzi le migliaia e migliaia di individue da lui osservate e studiate, una per una. Arrivando a capire fra le tante cose che, ad esempio, “le api hanno a disposizione, per mezzo della vista e dell’odorato, uno spettro diverso da quello disponibile per gli esseri umani; inoltre possono usufruire di due sensi che a noi sono praticamente sconosciuti: percepiscono il campo magnetico terrestre e lo usano per l’orientamento e, grazie ai campi elettrostatici, sono in grado di comunicare all’interno dell’alveare”. E tutte, con i loro minuscoli cervelli, sono in grado di imparare, risolvere problemi, comunicare concetti ed elaborare memoria durante il sonno. Ebbene sì le api dormono, e forse anche sognano, e vanno considerate un organismo modello per gli esseri umani. Anche per coloro, come alcuni colleghi di Menzel, che restano scettici di fronte a questi comprovati studi o che magari si dedicano più volentieri alla ricerca di forme sempre più sofisticate di neonicotinoidi, i pesticidi che rappresentano una grave minaccia per le api proprio perché vanno a danneggiare i loro neuroni e interferiscono sulle mappe cognitive delle insette. Menzer, a fine libro, racconta la sua breve esperienza di scienziato che collabora con l’industria per poter accedere a una strumentazione all’avanguardia ma costosa: ne esce fuori un ritratto che conferma non solo la poca trasparenza e i ricatti utilizzati dalle multinazionali ma quanto sia dannoso l’uso di neurotossine in agricoltura, le api ne sono danneggiate per sempre, soprattutto nella loro capacità comunicativa e mnemonica.

E di pesticidi e grave moria delle api, ma anche di memoria – umana, collettiva, perché no, auspicabilmente rivoluzionaria? – parla diffusamente un altro testo recentemente pubblicato, non un saggio né un testo tecnico ma un romanzo corale, La storia delle api, che intreccia passato, presente e un non troppo inverosimile fantafuturo, scritto con sapienza dalla scrittrice e sceneggiatrice norvegese Maja Lunde. Una narrazione epica, non solo nel procedere della lunga trama, ma nell’orizzonte che dispiega facendo incontrare Occidente e Oriente in un comune dramma: la continua distruzione dell’ambiente in cui viviamo, con l’attenzione rivolta alle api perché è grazie anche al loro essere impollinatrici, oltre che produttrici di miele, che è possibile la riproduzione dell’ottanta per cento delle specie vegetali, qualcosa che ha a che vedere con l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo. Due uomini e una donna, a lei è affidato un finale a sorpresa ricco di speranza, che vivono in epoche diverse ma tutti si occupano delle insette danzanti: nel 1852 incontriamo il biologo inglese William Savage – figura tratteggiata pensando al reale Lorenzo Langstroth che ideò una nuova arnia ispirandosi alle casse di Champagne – la cui invenzione cadde invece nell’oblio; nel 2007 è George Savage in Ohio alle prese con il Colony Collapse Disorder, o sindrome dello spopolamento dell’alveare; nel 2098 vive invece Tao, una donna cinese che deve impollinare a mano le piante perché non ci sono più le api a farlo. Acuta lettrice, Tao anni prima si era “imbattuta in una edizione a brandelli de L’apicoltore cieco e mi ero fermata. La traduzione dall’inglese era poco scorrevole e goffa, ma il libro era comunque coinvolgente. Era stato pubblicato nel 2037, pochi anni prima che il Collasso divenisse realtà e quando gli insetti impollinatori non erano ancora del tutto scomparsi dalla faccia della terra. Lo avevo portato alla mia insegnante, le avevo mostrato le fotografie delle arnie e i disegni dettagliati delle api. Erano proprio le api al centro del mio interesse. La regina e la sua prole, semplici larve nelle loro celle, e tutto quel dorato miele di cui si circondavano”.

E in questa lettura amabilissima, a tratti visionaria, si intravede fortemente il rischio a cui andiamo incontro non solo nel non prendere atto, subito, della necessità di preservare la Terra dalla nostra umana incauta presenza, ma anche anche quel che potrebbe accadere nel non tenere insieme l’apiColtura con l’apiCultura, ossia il necessario intreccio che dovrebbe esserci fra pratica apistica di chi alleva api e la consapevolezza e conoscenza del contesto in cui viviamo.

Sembrerebbe scontato ma non lo è, si assiste a un gran parlare di api anche a sproposito e come provocatoriamente afferma Angelo Dettori, apicoltore biologico da tempi non sospetti, forse bisognerebbe chiudere per un po’ i corsi di apicoltura, perché non basta un corso per salvare le api e diventare paladini etici nel business della green economy. C’è da studiare e approfondire tanto, recuperando nessi e saperi, senza semplificare e senza aver paura del confronto, così come con pregio è stato fatto nel volume collettaneo Api buridane a cura di Luigi Manias con cui – volendo prendere questi miei brevi appunti come consigli di lettura – si torna a casa, in Sardegna, con l’intento ambizioso e pur perseguibile spiegato dal curatore: “Le api buridane, transustanziate negli autori, vogliono rappresentare un primo avamposto che tenti di sovvertire una diffusa quanto commendevole vulgata; ovvero che l’universo di riflessione in apicoltura sia ristretto al solo orizzonte tecnico in un risibile excursus che va da A come acariosi a Z come zigrinatore”. Non di sole malattie o di strumentazione, si può e si deve dunque parlare anche fra addetti ai lavori, ma lasciarsi affascinare dalle suggestioni interdisciplinari dove svolazzano le api: Simona Abis, italianista, affonda il suo scalco interpretativo sui densi epigrammi apistici di Guido Ceronetti, dispersi in un epistolario inedito; Ignazio Floris, Vitale Deiana, Claudia Pinna dell’Università di Sassari propongono una sintetica ricostruzione storica dell’apicoltura sarda ma anche un catalogo dove la toponomastica rurale confermerebbe la pervasività dell’apicoltura in un ampio areale della Sardegna; Ilaria Marogiu, storica dell’arte, indaga in “Marginalia. Gli ex libris apistici” i significati riposti di una collezione unica; Greca Natasha Meloni, antropologa, indaga il rapporto tra i corpi, quello dell’apicoltore/trice e quello dell’alveare, ma anche l’insieme di conoscenze che un apicoltore/trice deve possedere per poter svolgere il proprio lavoro; Luigi Manias, apicoltore e tanto altro, a cui si deve il progetto Le api di carta, laboratorio propositivo di respiro nazionale, ricostruisce alcune vicende di storia locale oltre al nome dell’associazione Apiaresos, per poi guidarci nell’opera The bees di Graham Sutherland, fra i più rappresentativi artisti inglesi del secolo scorso, e nei versi della poetessa americana Sylvia Plath che dedicò alle api diversi componimenti prima della sua precoce scelta suicida.

Pubblicato su Alfabeta2



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