Barbara Bonomi Romagnoli | Giornaliste, non siate più complici del sistema – Intervista a MIlly Buonanno
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Giornaliste, non siate più complici del sistema – Intervista a MIlly Buonanno

Donne e media. Un binomio complesso, ma soprattutto scomodo. Diverse indagini hanno sottolineato la permanenza di discriminazioni di genere: la presenza delle donne nei media è caratterizzata da “visibilità senza potere”. Eppure il tema non sembra sortire una discussione più ampia e articolata, ricerche e analisi restano confinate ad incontri tra addetti ai lavori.

Come è accaduto, tra fine ottobre e inizio novembre, in due convegni organizzati per capire lo stato dell’arte nei media italiani. Ottimi gli spunti ma poco riscontro all’esterno.
L’università di Londra ha ospitato un incontro internazionale dal titolo “Women and the Mass Media in 20th Century Italy: Press, cinema, television, radio and the recording industry”, dove si è cercato di indagare, soprattutto attraverso l’analisi di alcune donne protagoniste nei media, quali sono i modelli di riferimento e i meccanismi di discriminazione.
A Bologna, invece, è stato ospitato il secondo appuntamento del percorso iniziato a Roma nel maggio scorso. Dopo il seminario romano su “Donne e media: signore o ancelle della comunicazione?”, in molte si sono ritrovate per ragionare attorno al tema “Donne e Media: voi siete qui. Verso una mappa di tutte le reti”.
Per tirare le fila di questi ragionamenti abbiamo conversato con Milly Buonanno, docente di Sociologia della Comunicazione a La Sapienza di Roma, presente a entrambi gli incontri, e che da trent’anni indaga il rapporto tra donne e media.


Iniziamo da Londra. Nel suo intervento dal titolo “Accesso e potere” ha parlato di quattro generazioni di donne giornaliste in Italia. Dalle “pioniere” fino alle “ultime arrivate” che sfuggono ad una precisa definizione. Cosa è accaduto rispetto alle altre generazioni?
C’è stato un ricambio generazionale ed è un dato indubbiamente molto importante. Le giornaliste della vecchia generazione sono note ma poche. Le donne, invece, entrate dagli anni Novanta in poi sono molte, ma hanno un profilo meno indagato. Paradossalmente abbiamo smesso di fare ricerca proprio nel periodo in cui le più giovani sono entrate massiciamente nei media. Abbiamo solo dati quantitativi ma non sappiamo chi sono e come arrivano alla professione.

Perché non si fa più ricerca?
Si deve subito evidenziare che l’attenzione su questo tema segue un andamento sinusoidale, ossia sale e scende. In questo modo si ricomincia sempre da capo, non si crea una linea di continuità che permetta di fare passi avanti. Ma soprattutto manca l’interesse, perché si tratta di indagini scomode e antipatiche. Per esempio, come avviene la distribuzione di potere nelle redazioni giornalistiche? Non lo sappiamo e non è semplice andare a chiedere. Non facciamo più ricerche sul campo. La conta delle teste non basta. Sappiamo che nei news magazine il 40% delle posizioni dirigenziali è in mano alle donne, ma una delle mie ipotesi è che queste donne curano la pace sociale. Per dirla in breve non creano problemi. Altre ipotesi sarebbero da verificare, in una prospettiva di cambiamento, ma per farlo è necessaria la ricerca. Invece manca la committenza, non tanto e non solo in termini finanziari: non c’è committenza intellettuale, l’interesse per capire quali sono le ragioni che producono lo stato di fatto.

A Londra si è parlato molto anche di rappresentazione delle donne nei media. È evidente che, non solo in Italia, resistono stereotipi sull’immaginario femminile. Mentre un fenomeno tipicamente italiano è quello della “velina” simbolo di un certo sguardo sul corpo femminile ma, secondo alcuni, anche di un certo modo di fare informazione. Lei cosa pensa a riguardo?
Innanzittutto direi che la velina, ma preferisco parlare di donna esposta allo sguardo maschile, è una presenza tipica dell’intrattenimento in televisione, sicuramente tipica della tv italiana, difficile trovarla altrove. Ma la nostra tv è anche quella che metteva la calzamaglia alle sorelle Kessler. Siamo passati da un estremo all’altro. Certamente in Italia, come altrove, l’informazione televisiva ha preso una piega soft, con insistenza sugli aspetti patetici.
La tv si è resa femminile-femminilizzante. Alcuni sostengono che sia una condizione per reclutare le donne. Allo stesso tempo si mandano le donne nei teatri di guerra. Come in altri casi, è una presenza ambivalente. Si portano le donne in luoghi storicamente maschili per farle uscire dal ghetto, ma è anche un modo per veicolare una informazione più morbida, la presenza femminile addolcisce la notizia. Più che di velinità dell’informazione parlerei di una complicità femminile nel solletticare la pancia e le emozioni.

A proposito di complicità femminile, c’è chi sostiene che sia una delle ragioni dell’irrisolto nodo del potere…
Certamente ci sono donne che accettano questo sistema e giocano lo stesso gioco, ma non intendo assolutamente giudicarle. Vengo dal femminismo degni anni 70, nel quale sicuramente abbiamo esagerato in moralismo o altro.
C’è da dire che, a proposito di donna scoperta, la tv italiana ha sempre avuto una particolare attenzione per l’estetica e per l’apparenza. Infatti, le nostre speaker televisive si distinguono in questo. Le stesse donne nelle soap sono spesso più curate e carine.

La fiction è un altro degli ambiti da lei indagati. Cosa accade qui rispetto alla rappresentazione delle donne?
Nella fiction l’identità femminile è più variegata e policentrica di quanto non sembri. C’è una qualche pluralità in più, una sorta di senso comune dell’emancipazione. Le donne sono padrone di sè e sono soggetti femminili in un certo senso consapevoli. Detto questo, va anche ricordato che la fiction italiana è molto politicamente corretta. Si tende a santificare tutto, figuriamoci le donne. Ma soprattutto non abbiamo autentiche protagoniste, le donne sono ovunque ma gli eroi sono maschi. Non è senza significato, ad esempio, che nella serie “Distretto di polizia” all’inizio c’era una donna al comando e nell’ultima edizione sia comparso un uomo. Dove si tenta un minimo di innovazione poi ci si ferma. E in più resistono certi stereotipi: ci fosse una donna consapevolmente senza figli. C’è una immagine di donna sicuramente non subalterna, ma che comunque non scardina certi meccanismi.

Veniamo a Bologna: qui si è continuato a lavorare per mettere in rete le donne che lavorano nei media e incidere sul sistema informazione. In che modo si deve proseguire?
È necessaria grande determinazione e un gruppo cospicuo di persone che lo ritenga un obiettivo prioritatio e abbia tempo per lavorare. Non semplici momenti rituali, come possono essere convegni o incontri, ma un lavoro approfondito. È una impresa difficile e ci vuole anche un certo spirito di sacrifico. Noi donne che veniamo dal femminismo degni anni 70 adesso abbiamo altro da fare, ma ci sono le giovani generazioni. In questo momento c’è una pluralità nei media che andrebbe sfruttata. Ci vorrebbe un patto tra generazioni.

Cosa impedisce un patto tra generazioni?
Non c’è dialogo, manca la continuità con ciò che è stato già fatto. Abbiamo dato per scontata una visione evoluzionistica della storia, come se, una volta dato il via, tutto procedesse automaticamente. Non è così. I processi si interrompono, a volte vanno spinti e attivati.
E deve essere ripensata anche la formazione. Nei miei corsi universitari vedo molti giovani (uomini e donne) prendere il giornalismo un po’ come la battuta di Moretti: “faccio cose, vedo gente”. Hanno una idea vaga di una professione svagante, quando invece si tratta di un ruolo chiave per una democrazia.


pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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