Barbara Bonomi Romagnoli | Crescere in campagna segna ancora il destino delle ragazze?
598
post-template-default,single,single-post,postid-598,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,select-theme-ver-1.6.1

Crescere in campagna segna ancora il destino delle ragazze?

Adeguarsi al male è possibile. Anche considerare naturale qualcosa che non lo è, come la violenza per mano di familiari o loro amici: Barbara Buoso, autrice de L’ordine innaturale delle cose (Baldini&Castoldi, 2014), descrive con dolorosa lucidità e con parole poetiche che non possono lasciare indifferenti, la quotidianità di una famiglia in cui è “normale” che si studi il minimo per fare da conto e poi si vada dritti a lavorare in fabbrica o nei campi o che si accetti che i maschi abbiano diritto ad una modesta felicità, seppur non scelta, ma comunque preclusa alle donne. Ancor più è naturale, per un presunto istinto animale, che si abusi dei corpi femminili, anche delle bambine. La protagonista del romanzo, Caterina, purtroppo è nata femmina:

«e non ci poteva fare niente, se non lasciar fare quello che veniva fatto a tutte le femmine del suo mondo che, forse, poteva farla sentire meno in debito con tutti. A sua cugina Maria Pia toccava sempre tenere le gambe aperte quando un maschio voleva sfogarsi, a volte capitava anche quando Caterina era a letto con loro che si infilasse qualcuno, tirasse giù la camicia da notte e le mutandine di Maria Pia e iniziasse a respirarle male contro».

Caterina vive in una casa colonica tra l’Adige e il Po, nella bassa rodigina, è una famiglia allargata la sua, divide la stanza con le cugine e riceve più affetto dagli zii che dai genitori, ossessionati dal tirare avanti la baracca. Caterina è nata negli anni Settanta, non nell’Ottocento, eppure a scorrere queste pagine stride la sensazione che la campagna del ricco Nord Est sia stata fino a pochi decenni fa governata da queste leggi patriarcali, a non metterle in discussione sono le donne stesse. La rabbia di Caterina è il contraltare necessario, l’urgenza di un riscatto che è faticoso da mettere in pratica se ti tarpano pesantemente le ali e se l’unica persona che prova a rompere il muro di silenzio – la maestra – viene ricacciata nella realtà cittadina da dove viene, dove qualcosa invece, in quegli anni Settanta, si è mosso. Il romanzo di Buoso colpisce dunque per la contemporaneità della trama, per una violenza che è ancora troppo frequente e non riconosciuta, perché ci interroga sull’intimità perversa di un intero Paese.

Buoso, è ancora questo lo scenario per una donna che nasce in una campagna del Polesine?
«La legislazione italiana ha permesso a certe aree geografiche di migliorare, a mio parere, la vita dei suoi abitanti, non solo al nord. Nel mio romanzo c’è non a caso una “celebrazione” del raccolto che – dai miei ricordi – rappresentava il filo conduttore della vita di tante persone, si viveva e si moriva per arrivare a fare un buon raccolto. Prima del 1974 i contratti agrari, come la mezzadria, erano a favore dei proprietari dei fondi, non restava quasi niente a chi lavorava le terre. Poi è stata vietata la stipula dal ’74 in poi, sono rimasti quelli in essere che in parte sono stati convertiti in normali affittanze e in altre forme miste di pagamento che però preservavano anche il coltivatore del fondo. La donna polesana di oggi penso abbia più possibilità di aprirsi al mondo».

Fino a che punto è un romanzo autobiografico? Quanto pesa nella scrittura mettere in gioco la propria vita?
«Penso sia un romanzo autentico. Non è un modo per glissare, ci sono “io”, certo, ma non so quantificare in che misura, nessuno può farlo con i propri scritti, almeno credo».

Il titolo parla di ordine innaturale, ma la normalità quale dovrebbe essere?
«La normalità dovrebbe prevedere una famiglia in cui ci si vuol bene in modo sano e pulito. Una famiglia dove si riceve una educazione, dei valori, e si impara a rispettare sé stessi e il prossimo».

È bellissima la figura della maestra: quanto conta il sapere per l’autodeterminazione di una donna?
«Io fino a qualche anno fa nemmeno pronunciavo ad alta voce alcune parti del mio corpo, le indicavo. Dal medico, per riuscire a spiegarmi, dovevo andare con una cartina!»

Il salto narrativo finale, in cui di colpo veniamo a conoscenza della malattia di Caterina, lascia un po’ l’amaro in bocca: il lettore/lettrice vorrebbe sapere che ne è, ora, della vita di Caterina, solo farmaci?
«Mi è piaciuta una espressione che hai usato “a caldo”, dopo aver letto il libro. Più o meno – correggimi se sbaglio – mi hai detto: “alla fine sembra quasi tu abbia voluto correre avanti”. Ecco, sì, ho voluto fare una corsa in avanti con tutto il fiato a disposizione. Volevo, quasi fosse stato un film, far vedere Caterina da grande, inquadrarla e lasciar parlare le immagini… dire: vedete, ce l’ha fatta a diventare grande, Caterina c’è. Assolutamente, non solo farmaci per Caterina, non scherziamo! C’è l’aver preso il primo aereo a 35 anni suonati (e non volere più scendere quasi); c’è stato il primo bacio, ma mi rifiuto di dichiarare l’età; c’è, per ogni santo giorno, una prima volta di tantissime cose… guidare sul Sacro Gra e prendere una multa per eccesso di velocità».

Effettivamente il libro di Buoso si legge come fosse un film, sono tante e diverse le immagini che in qualche modo vediamo nel leggerlo. Emma Dante, che ha “scoperto” l’autrice e l’ha sostenuta nella scrittura di questo romanzo, non ha dubbi: «secondo me, potrebbe diventare un film. È un romanzo visionario, ricco di spunti e orrore». Non mancano le somiglianze con alcuni suoi testi teatrali, in particolare con la sua “carnezzeria” perché «in entrambi i racconti c’è una orribile tenerezza – prosegue Dante – per via dell’accettazione del male da parte della vittima come condizione naturale. Chi subisce in questi racconti non è del tutto consapevole della violenza, si è adattato, non rassegnato ma adattato». Fino a quando, come nel caso di Caterina, non si cerca un punto di rottura, una uscita di scena che in questo caso è la “follia” che «serve sempre per scappare dall’abbrutimento e dalla disperazione – conclude Dante – perché si può diventare pazzi di dolore, ma questa pazzia a volte rende possibile la fuga».

Pubblicato su 27Ora Corriere della Sera



Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi