Barbara Bonomi Romagnoli | Scritto col mio sangue. Storia di una donna che non sapeva essere madre
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Scritto col mio sangue. Storia di una donna che non sapeva essere madre

Intervista a Irene Vilar [ Scritto col mio sangue, Corbaccio editore]

Irene Vilar, portoricana, è solo una studentessa quando conosce e si innamora del suo professore di storia. Lei ha diciassette anni, lui cinquanta. Ha inizio una relazione travolgente e squilibrata che sfocia in un matrimonio impossibile, segnato da contrasti. E da quindici aborti in quindici anni. Lui le impone di non avere figli. Lei è completamente succube, da una parte li desidera, resta incinta, ma non ha la forza di opporsi, di capire cosa vuole. Rinuncia con un atto di violenza estrema. La storia di questo libro ripercorre l’infanzia traumatica di Irene, portoricana in un paese come gli Stati Uniti che pretendono di condizionare la politica demografica del Porto Rico, ed è una storia in cui l’autrice intesse passato, presente e futuro senza soluzione di continuità.

La prima cosa che dichiara nel testo è che la sua vicenda non è da considerarsi politica. Non crede che sia una affermazione contraddittoria? non pensa che la sua vicenda sia l’espressione, portata all’estremo, del rapporto fra i sessi che è per definizione politico?

Nel prologo dico che non voglio che la mia testimonianza personale venga strumentalizzata dalla politica sull’aborto degli Stati Uniti, ma naturalmente la mia storia è profondamente ideologica e politica. Come è chiaro nella mia testimonianza, che descrive gli effetti del colonialismo su mia madre e mio padre, e come poi tutto questo influenzi le mie scelte di donna. Sono d’accordo che il mio rapporto con mio marito è il classico rapporto tra i sessi, ma non volevo ridurre la mia testimonianza a questa lettura. Volevo che fosse una lettura più complessa, che illustrasse anche come una donna possa attivamente contribuire a creare e riprodurre il proprio senso di impotenza, e volevo che fosse una testimonianza di come ci si possa assumere le proprie responsabilità.

Ha scritto queste pagine dopo tanti anni per paura di fraintendimenti, da entrambi i fronti abortisti e prolife. Ma al di là della questione aborto, secondo lei una donna si realizza solo facendo figli?

Assolutamente no, non è l’unico modo. La mia storia specifica e illustra come molto spesso giovani donne impotenti indulgano nelle fantasie di una gravidanza e usino erroneamente il potere della fecondità per trovare il conforto che non trovano altrove. Naturalmente non è la storia di tutte le donne, ma è il mio contributo alla discussione sulla salute riproduttiva che attualmente manca.

Ha pensato che restare incinta per poi abortire potesse essere una ribellione?

Non pensavo fosse una ribellione, ero intrappolata in una patologia che per definizione non permette un pensiero razionale. L’unica cosa a cui pensavo era come tenermi quel rapporto d’amore e come tenere quello che desideravo di più, avere una gravidanza. Le due cose si opponevano una all’altra e il mio corpo diventava un campo di battaglia nel quale io avevo pochi strumenti per agire, data la mia povertà emotiva; guardando indietro, posso dire che con ogni gravidanza sfidavo inconsciamente mio marito, e al tempo stesso sfidavo e mi ribellavo al sistema politico che mi aveva portato via mia madre.



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